Informazioni dalla Rassegna STAMPA

In casa o al centro commerciale: così i ragazzi trascorrono il tempo libero

ROMA – Passano la gran parte del tempo libero in casa, poiché i genitori si preoccupano se stanno all’aperto. Spesso praticano attività sportive, ma l’auto è il mezzo più usato per gli spostamenti. I ragazzi italiani oscillano costantemente tra pratica sportiva, sedentarietà e cattive abitudini. È quanto emerge dalla ricerca conoscitiva realizzata da Ipsos per Save the Children e Kraft Foods Italia sugli stili di vita dei minori nel nostro paese. L’indagine, effettuata nel mese scorso, ha coinvolto un campione di 700 giovani tra i 6 ed i 17 anni ed i loro genitori, distribuiti su tutto il territorio nazionale. La ricerca evidenzia che quasi un quinto dei bambini e adolescenti italiani non pratica alcuna attività motoria nel tempo libero. Tra i motivi segnalati, l’assenza di strutture sul territorio (20%), il costo elevato (25%) o i malfunzionamenti delle strutture pubbliche o private, insieme al fatto che i genitori non possono accompagnarli (12%). Ma il 9% dei ragazzi non fa movimento neanche a scuola, secondo i genitori intervistati, in buona parte per l’assenza di uno spazio attrezzato (43% dei casi), che manca completamente nel 4% delle scuole e, laddove esiste, secondo il 34% dei bambini, non è in buone condizioni (percentuale che sale al 45% in città come Genova e Milano). Non va meglio sul fronte della sedentarietà: secondo il 59% dei genitori italiani i loro figli passano il tempo libero prevalentemente a casa propria o di amici. Di questi, il 33% dichiara che non esistono spazi all’aperto dove i bambini possono incontrarsi con gli amici, il 32% dice che nei luoghi di aggregazione non esistono condizioni di sicurezza e pulizia adeguate, e infine il 35% afferma di non poterli accompagnare e supervisionare. Anche il 28% dei bambini e ragazzi intervistati dichiara di passare poco tempo all’aperto: l’11 % di essi non gioca mai o quasi mai fuori con gli amici, mentre il 17% lo fa solo qualche volta al mese. Per contro, il 59% dei genitori si preoccupa se i figli stanno all’aperto, soprattutto per la paura degli sconosciuti (51%, che sale fino al 62% a Milano), seguita dal timore di incidenti (22%), del traffico (20%), o che frequentino amici pericolosi (6%), dato quest’ultimo che emerge probabilmente in contesti sociali disagiati. Circa un’ora al giorno, di media, è dedicata alla televisione, che sebbene appaia un po’ ridimensionata rispetto al passato, rappresenta una fetta importante del tempo libero dei bambini. Più di 3 ore di tv al giorno sono la regola per quasi un bambino su 10 durante la settimana, ma nel weekend lo diventano per 1 su 5, così come lo è l’utilizzo di internet. Inoltre, un genitore su 4 non controlla per quanto tempo i propri figli restano incollati agli schermi né cosa fanno e quanto navigano su internet, percentuali che salgono a Milano e Torino. Quando si sposta per qualunque esigenza, anche solo per andare a scuola, più di un terzo dei bambini e ragazzi lo fa accompagnato in auto (38%). Il 67% infatti cammina meno di 30 minuti al giorno e un terzo di loro prende abitualmente l’ascensore. Inoltre, il 52% dei ragazzi non reputa sia importante fare attività motoria, o in ogni caso che sia più importante essere esperti di videogiochi, cartoni o calcio (non viene reputata importante). Il tempo con i genitori viene trascorso andando a passeggio (52%), ma anche all’interno delle mura domestiche (45%) o a casa di qualche familiare (43%). Molti, ben il 42% dei ragazzi, lo passano all’interno dei centri commerciali. (07 giugno 2011).

Basta tv e pc, largo al movimento

Castelli di sabbia, capanne o nascondigli. Addio tv, con l’estate (ma sarebbe meglio in tutte le stagioni) il gioco deve essere rigorosamente all’ aperto. «Sia il mare che la montagna vanno bene, l’importante è che i bambini abbiano degli spazi per impegnarsi in quei giochi di movimento così importanti per il loro sviluppo fisico e psicologico – spiega Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma – Tutto varia in base all’ età e agli interessi, ma all’ aperto si possono fare giochi di gruppo che al chiuso è difficile fare. Ci sono anche quelli con l’acqua e la sabbia. Piacciono perché pongono i bambini in contatto con gli elementi naturali. Per chi rimane in città la piscina è il luogo ideale». Una ricerca di Gavin Sandercock, cardiologo dell’Università dell’Essex, ha dimostrato che in 10 anni la forza delle braccia dei bimbi è scesa del 26%, mentre il numero di esercizi per gli addominali completati in 30 secondi è diminuito del 27%. L’ attività fisica è fondamentale, ma a volte sono gli stessi genitori ad avere paura che correndo o arrampicandosi il figlio si faccia male. «Le esperienze che i bambini possono fare negli spazi esterni ampliano i loro orizzonti e favoriscono apprendimenti necessari per crescere, socializzare, sviluppare fiducia in sè stessi. Via via che crescono devono imparare a distinguere il buono dal cattivo, le situazioni pericolose da quelle che invece possono essere fronteggiate- spiega Anna Oliverio Ferraris che sull’ argomento ha scritto, insieme alla figlia, Albertina Oliverio, il libro A piedi nudi nel verde – I genitori troppo ansiosi finiscono per trasmettere le loro ansie ai figli i quali rischiano di crescere timorosi e troppo dipendenti dagli adulti. Non considerano che sono più pericolosi per la crescita la sedentarietà, la visione di certi programmi tv o stare tanto davanti ad un videogame». Lo studio Play for a change di S. Lester-W. Russell dimostra che l’attività ludica influenza lo sviluppo del cervello e quello che si impara nei giochi sociali di movimento in età prescolare aiuta a rispondere alle esperienze e all’ ambiente nelle età successive. Un bambino che gioca poco rischia di non sviluppare a pieno non solo le proprie potenzialità motorie ma anche quelle cognitive. «Il periodo tra i tre e i sette anni è importante per la socializzazione. Giocando insieme all’ aperto ci si diverte ma si fanno anche esperienze che insegnano a vivere con gli altri. Ma d’ estate si possono fare altre cose come, ad esempio, andare in bicicletta, ovviamente su piste ciclabili sicure», dice Albertina Oliverio, docente all’ università di Chieti. Così nei campi estivi. «È positivo che i ragazzi si abituino a stare per un po’ al di fuori del controllo stretto dei genitori. Si rendono autonomi e si responsabilizzano. Per quanto riguarda l’età non ci sono regole: per molti un buon periodo per incominciare è tra gli 8 ei 12 anni». – (VALERIA PINI 19 luglio 2011 — pagina 32 sezione: SALUTE).

Bici e nascondino, nei giochi i bimbi amano la semplicità. Un sondaggio su 1500 bambini evidenzia il divario tra ciò che credono i genitori e ciò che desiderano i figli piccoli

MILANO – Un giardino dove giocare liberi, en plein air, magari lo stesso di tutte le estati, dove ritrovare gli amici di sempre e fare cose banali, ma bellissime, quelle di una straordinaria normalità: andare in bici, fare giochi d’acqua, arrampicarsi sugli alberi, giocare a nascondino. Ecco l’estate ideale per i bambini dai cinque agli undici anni, intervistati da un brand di supermercati sui loro gusti riguardo ai passatempi vacanzieri.

IL SONDAGGIO – L’intervista ha coinvolto 1500 bimbi e 2000 genitori, evidenziando un divario di percezioni e gusti notevole tra piccoli e grandi riguardo il modo di vivere l’estate. Mentre gli adulti si ostinano a destinare somme da capogiro a escursioni e viaggi per i propri bimbi, questi ultimi spesso vorrebbero un’estate molto più sobria, generalmente stanziale, socializzante e soprattutto semplicissima e gratuita.

COSTO ZERO – Al primo posto tra i piaceri dell’estate c’è il gioco all’aria aperta, persino se piove, seguito da giocare con l’acqua, andare in bici, arrampicarsi sugli alberi, mangiare un gelato e dare da mangiare agli anatroccoli. Ma piace molto anche piantare i fiori e raccogliere lamponi, attività a costo zero amatissime dai piccini. Bisogna scendere fino al dodicesimo posto per trovare “finalmente” un’attività gradita ai bambini e minimamente costosa, ovvero il cinema, mentre il computer è snobbato da quasi tutti. I GRANDI INVECE – Ma questo non è chiaro agli adulti, nonostante dalla lettura del sondaggio sette su dieci si ricordino benissimo di quando erano piccini e del modo diverso di percepire la vita. Ed ecco dunque che mamma e papà nel periodo estivo acquistano almeno un’escursione settimanale, mentre un adulto su tre ha organizzato un viaggio estivo e in quattro casi su dieci ha addirittura incrementato la voce “viaggi e vacanze” nonostante la crisi.

L’IMPORTANZA DELLA SOCIALIZZAZIONE– Come fa notare anche la psicologa infantile Linda Papadopoulos questa ricerca è l’ulteriore conferma che ai più piccoli piace la semplicità e spesso i genitori si adoperano nell’organizzazione di viaggi esosi proiettando un proprio gusto, oppure

cercando di espiare un senso di colpa latente per il poco tempo dedicato ai figli. Ma c’è anche chi, consapevole dei gusti filiali, tenta ugualmente di arricchire l’esperienza e le conoscenze della prole, buttando un seme che forse un giorno germoglierà.

LA VILLEGGIATURA DI UN TEMPO – Loro, i bambini, vorrebbero però qualcosa di molto simile alla villeggiatura che si faceva un tempo, un posto famigliare dove giocare con i propri simili, con ritmi diversi e una insperata libertà. Il sondaggio del resto intercetta ragazzini sino agli undici anni e dunque coinvolge anche l’età degli amori pre-puberali, i primissimi sentimenti giovanili che tradizionalmente si consumano d’estate, ritrovandosi con orari più elastici e maggior spensieratezza. Inoltre il sondaggio britannico è un elogio della socializzazione, priorità assoluta per i bambini e decisamente più realizzabile in una vacanza stanziale piuttosto che in un viaggio esotico, meraviglioso e costoso, dove si possono fare conoscenze effimere che raramente si ritroveranno.

LA STESSA SPIAGGIA – Piace infine ai più giovani la circolarità degli eventi, il ritrovare anno dopo anno i posti, apparentemente immutati e uguali a sé stessi, che dà loro un senso di rassicurante serenità. Ai bimbi piacciono i passatempi normali, nonostante l’affannarsi dei grandi, e vorrebbero le estati di una volta, quelle che si vivevano nella casa di campagna o dai parenti, o anche quelle lussuose raccontate da Susanna Agnelli in “Vestivamo alla marinara”, in cui l’autrice scriveva di quell’unica parentesi estiva spensierata e libera in una vita incastrata tra rigore e a austerità. Le vacanze in Versilia, a Forte dei Marmi, finalmente liberi e felici, finalmente tra gli altri, in quella stessa spiaggia di sempre tra gli stessi bimbi: “…quando la vita mi feriva, c’era sempre la stessa spiaggia a raccogliermi”. Insomma, se volete veramente rendere felice il vostro bambino d’estate scordatevi i parchi avventura, i safari, gli zoo e le metropoli suggestive. E comprategli una pistola ad acqua. (Emanuela Di Pasqua 17 agosto 2012).

Children safer from strangers in the park than their bedroom, NSPCC warns. – Children are safer playing out in the street or their local park than on the internet, a landmark report by the NSPCC shows (18 Aprile 2013 By John Bingham).

Educating young people about traditional “stranger danger” is failing to equip them for new “emerging threats” on social networking sites and through phenomena such as “sexting” or cyberbullying, it warns.
Meanwhile the report, billed as the comprehensive study of risks to children in the UK, also warns only a small a fraction of abuse or neglect in the home is being detected.

Only around one in nine of the estimated 520,000 children mistreated in their own home every year is under formal protection plans by their local authority, the charity calculates
Even on official figures, children are twice as likely to suffer mistreatment in the home than outside, but the report concludes that abuse is “more often than not undetected”.

There were more than 21,500 recorded sexual offences against children in the UK last year alone including almost 6,000 rapes.

But, overall the report, which pulls together a raft of official data and surveys, shows a significant long-term decline in violence against children in comparison with previous decades, contrary to public perceptions, but major new threats emerging through the internet.

Child murder, for example, is down by 30 per cent since the early 1980s and serious assault involving children have also declined steadily as have child suicide rates in most of the country.
But with children as young as five spending up to six hours a week on the internet, a quarter of 11 and 12 year-olds now see something which worries them on the internet every day, it warns.

Almost three out of 10 of those aged 11 to 16 have been bullied over the internet or through a smart phone and about one in 13 of them suffers “persistent” cyberbullying, the charity estimates.

More than one in 10 children in the same age group has been on the receiving end of a sexually explicit message – a proportion which almost doubles among those aged 15 and 16. Meanwhile almost a third have had contact with a stranger on the internet and a quarter of nine to 16-year-olds have seen sexual images online in the last year.

Greater vigilance in the wake of scandals such as the Baby Peter case have triggered a sharp rise in recorded cases of neglect, but the NSPCC estimates that in reality is happening at a similar rate to a decade ago.

Lisa Hawker, author of the report, said: “We are still trying to fully understand the scale of online harm but children are telling us that cyberbullying, sexting and seeing sexual images online are things that many of them are experiencing.

“Parents are perhaps unaware that when your child is using a computer or mobile phone they may be at greater risk of being hurt or harmed in some way than if hey are out and about in their local park.
“The changing nature of the way we live our lives means that actually your chances of meeting someone who can harm you is now much greater through the internet or your mobile phone through a stranger you might come across in the street or the local park.”

The report remarks that in many ways children today are safer than previous generations, at least from traditional sources of danger.

But it adds: Despite this, the extent of child abuse and neglect in our society remains deeply worrying.

“It is an outrage that more than one child a week dies because of maltreatment and that one in five children today have experienced serious physical abuse, sexual abuse or severe physical or emotional neglect.

“Child abuse is more prevalent, and more devastating, than many of us are prepared to recognise.”

It adds: “What’s more new kinds of threats are emerging, particularly with the increasing amount of time children spend in the digital world … while parents are used to equipping their children to deal with real or potential threats to their safety, they are much less confident when dealing with the online world.”

The report concludes that it would be impossible for social services ever to detect all cases of maltreatment of children in the home and calls for a shift in policy towards spotting warning signs and prevention.

“Wider society also has an important role to play, abusive behaviour cannot be stamped out by the state alone,” it says.

“Individuals, families and communities must also be responsible for the change.
“All too often people frame this responsibility in terms of being willing to act if worried about a child, rather than being willing to address faults in their own or others’ behaviour.

“Perhaps it is time to reassert our responsibilities to children as citizens.”

In questo articolo, il giornalista del Telegraph, John Bingham, analizza il report della Charity National Society for the Prevention of Cruelty to Children (NSPCC) sottolineando come ancora una volta la nuova frontiera del pericolo per i più piccoli sia rappresentata da internet piuttosto che andare a giocare al parco…

Più vita all’aperto per prevenire la miopia

I bambini che trascorrono più tempo alla luce naturale sviluppano meno spesso il difetto visivo. Guardare allo stile di vita… fa vedere meglio da lontano. Se un bambino trascorre più tempo alla luce naturale e all’aria aperta più difficilmente diventerà miope oppure svilupperà una forma più lieve di miopia. Questo vizio refrattivo – che colpisce circa 15 milioni di italiani – può essere, almeno in parte, prevenuto: oltre alle cause genetiche, un corretto stile di vita ha un peso notevole. Ad arrivare a una simile conclusione è una ricerca condotta dall’Università di Taiwan.

Nello studio sono stati esaminati 571 alunni di età compresa tra i 7 e gli 11 anni che frequentavano due scuole elementari vicine: 333 bambini hanno trascorso fuori dall’edificio scolastico 80 minuti al giorno, mentre gli altri 238 sono rimasti in classe (gruppo di controllo). Dopo un solo anno i ricercatori hanno constatato che i tassi di diffusione della miopia erano significativamente più bassi nel primo gruppo (8,41% contro 17,65%) ossia in quello che trascorreva quotidianamente un’ora e venti all’aperto. Anche la progressione della miopia si è rivelata inferiore nello stesso gruppo: un peggioramento della miopia solo di un quarto di diottria l’anno contro 0,38 diottrie.

Un precedente studio – pubblicato sempre sulla rivista Ophthalmology – è stato invece condotto su 235 bambini miopi danesi dagli 8 ai 14 anni che frequentavano la scuola. Esso ha dimostrato che il grado di miopia è minore negli allievi che beneficiano della luce naturale per alcune ore al giorno: in sei mesi la lunghezza del loro bulbo oculare è aumentata di meno rispetto al gruppo di controllo*. “I nostri risultati indicano che l’esposizione alla luce del giorno aiuta a proteggere i bambini dalla miopia – ha affermato Dongmei Cui della Sun Yat- sen University, Cina –. Ciò significa che i genitori e le altre persone che gestiscono il tempo dei bambini dovrebbero incoraggiarli ogni giorno a trascorrere del tempo all’esterno”.

Insomma, la luce solare aiuta a far sviluppare meglio il bulbo oculare e non dovrebbe mai essere sottovalutata. Uno stile di vita sano, compreso del tempo trascorso all’aria aperta, è quindi fondamentale sin da bambini anche per contribuire alla salute oculare.

Nota:* più si allunga il bulbo e maggiore è il grado della miopia perché il fuoco dei raggi luminosi cade davanti alla retina, generando un’immagine progressivamente più sfocata (quanto più divergono i raggi dopo il fuoco).

(Fonti: Ophthalmology, American Academy of Ophthalmology  6 maggio 2013)

Dipendenza da Internet. Reportage dal Policlinico Gemelli. In cura dal Dott. Tonioni, sono passati 600 ragazzi: fino a 18 ore al giorno sul web

HeIlo Denise! è un film di 18 anni fa. Nella pellicola di Hal Salwen un gruppo di giovani vive tutto (corteggiamenti, rapporti sessuali, funerali e perfino un parto) via telefono. Un giorno finalmente due di loro decidono di incontrarsi ma, incrociandosi per strada, non si riconoscono. Questa storia, un tempo grottesca caricatura del futuro, “oggi non è più così surreale”.

Il Dott. Federico Tonioni si occupa di dipendenze da Internet a tempo pieno da ormai 4 anni. Al piano -1 del Policlinico Gemelli di Roma, un’equipe di psicologi e psicoterapeuti insegna alle persone ad arrossire di nuovo e a non averne paura. La dipendenza da Internet (IAD, Internet Addiction Disorder) è una patologia studiata di recente, se ne sa ancora molto poco. Ma è abbastanza diffusa, anche in Italia, da tenere l’Ambulatorio aperto dalle 9 del mattino alle 18 del pomeriggio ed organizzare una terapia di gruppo settimanale per i genitori dei nativi digitali dipendenti dalla rete.

Il corpo dice un sacco di cose e dice sempre la verità. Senza gli odori, i movimenti, gli occhi di un’altra persona, invece, si può mentire facilmente perché ad agire è l’Io, la logica, “l’istanza più corrotta”, si esegue un’operazione “cognitiva”. Online però il corpo non c’è. Due ragazzi reciprocamente visibili di fronte ad una webcam che parlano di amore, di sesso o di qualunque altro fatto personale, non arrossiscono. “Pensa”, dice il Dottor Tonioni, “che formidabile strumento è il web per relazionarsi fra ragazzi laddove un rossore può mandare in pezzi un adolescente”.

Sono più di 600 le persone passate di qui da quando – primo in Italia – ha aperto l’Ambulatorio per la dipendenza da Internet. “Non dobbiamo vedere tutto come una patologia solo perché non lo conosciamo”, avverte Tonioni. Internet è una miniera di risorse ed è impensabile abbandonarla ora che l’abbiamo scoperta. Per qualcuno, però, può essere difficile ricordarsi che esiste un mondo in superficie.

Videogame online, chat, social network, di cui Facebook è il re indiscusso. Il web rappresenta un mondo parallelo in cui rifugiarsi ed essere qualcun altro senza dovervi investire emotivamente. Oggi si può scrivere a qualcuno che si trova dall’altra parte del mondo rimanendo sdraiati sul proprio letto, dimenticandosi del corpo, del tempo che passa, come se si stesse dirigendo un sogno.

Numeri. I ragazzi assuefatti alla rete sono l’80% dell’utenza del Day Hospital di Psichiatria del Gemelli, e per lo più sono di sesso maschile. Il restante 20% sono adulti e nel loro caso, a destare problemi, sono le ore di gioco d’azzardo online e di accesso ai siti porno che arrivano a far perdere il posto di lavoro. Nei casi più acuti i giovani passano fino a 18 ore al giorno di fronte ad uno schermo. Si perde il sonno, la concezione del tempo e dello spazio si dilatano e distorcono. Un trip da cui è difficile svegliarsi perché Internet non dorme mai, è un flusso continuo, sempre pronto a saziarci con emozioni facili, rapporti puramente “cognitivi” e allo stesso tempo così intimi da scambiarsi inviti sessuali.

Gli effetti di Internet sul comportamento. Le relazioni web mediate, lo dimostrano numerosi studi, aumentano aggressività e disinibizione sessuale. Il web è come una grande platea, un continuo ritrovo sociale dove si ha l’occasione di re-inventarsi a proprio piacimento. Le regole per farlo, tuttavia, sono precise. Bisogna apparire spensierati, vivere con l’acceleratore sempre premuto. “Magari metti due amici fichi, con i muscoli e qualche tatuaggio e delle amiche carine. Come sfondo un bar alla moda che dimostri che sei parte del giro giusto”. spiega lo psicologo. Per le ragazze questo si traduce in vestiti succinti, linguaggio spinto: una presunta “libertà” da costumi e regole che di fatto è un set di regole altrettanto costrittive.

Facebook crea l’attraente “illusione di gestire le emozioni a proprio piacimento”. Certo, basta un semplice gesto per fare il log out. Ma le persone con cui si interagisce, spesso, si incontrano il giorno dopo. A quel punto, le parole scritte il giorno prima, senza pensarci due volte – forti della protezione di uno schermo – acquisiscono concretezza, creano delle aspettative. Se si è protagonisti di azioni di cyberbullismo (e spesso chi è in cura al Gemelli ne è anche vittima, sottolinea Tonioni) e non si vuol perdere la faccia, bisogna dargli seguito nella realtà.

La terapia. “Negli Usa i pazienti sono obbligati a curare una gallina: un animale ipercinetico. Diverso dal computer che è immobile. In Cina sono picchiati, ci sono stati anche due morti. In Olanda li portano a passeggiare nella natura”, ha raccontato Tonioni. Qui al Gemelli la terapia consiste in due appuntamenti settimanali: una seduta individuale ed una di gruppo. Negli incontri collettivi “si agisce sul sintomo, nel caso degli adulti sono le ore di connessione mentre per gli adolescenti è il rapporto con le emozioni”, spiega l’esperto del Gemelli.

Spesso al gruppo ci si giunge col tempo. I ragazzi che arrivano all’ambulatorio non sanno più gestire il contatto visivo, tantomeno un confronto diretto con più individui della loro età. “Due ragazzini”, racconta, “si sono seduti accanto per diverse sedute senza mai guardarsi ma fissando la psicologa come se fosse uno schermo”. Dopo sei mesi, due di loro giocavano a carte, in attesa di cominciare l’appuntamento. “Questa è una buona cosa”, sorride Tonioni.

La terapia dei genitori. Per lo stesso motivo, in terapia per IAD , vanno prima le mamme e poi – se si riesce ad “intercettarli” – i giovani internet addicted. Le madri si preoccupano più dei padri, ci racconta la Dottoressa Daniela Maiuri che segue i gruppi di terapia collettiva per genitori, tutti i giovedì. “Arrivano agitati, in ansia. Non sanno che fare, vogliono che gli diciamo come devono comportarsi”.

Quando siamo andati all’Ambulatorio il gruppo era composto da tre donne e un uomo: tutti genitori di maschi.
La dipendenza da qualunque cosa, sottolinea la psicologa e conferma il dottor Tonioni, è sempre il sintomo di problemi più profondi, un vuoto che si cerca di colmare con la quantità, con un consumo compulsivo che diventa una medicina, seppure temporanea. La terapia, quindi, deve necessariamente coinvolgere tutta la famiglia, chiarisce la Dott.ssa Maiuri. Ai genitori si consiglia di non assumere mai comportamenti aggressivi con i figli perché accentuerebbero solamente il problema. Mai staccare il modem senza preavviso, quindi. Per chi è dipendente equivale a svegliarsi da un sogno e venir gettati nella realtà.

“Se chiami qualcuno che sta giocando alle slot machine, lo puoi chiamare anche tre volte. Quello non risponde”, spiega il Dott. Tonioni, chiarendo il concetto di comportamento compulsivo, “se citofoni ad una ragazza bulimica mentre ha di fronte un tavolo di merendine, lei non ti sente”. E quando si riesce finalmente ad ottenerne l’attenzione saranno furiosi a causa dell’interruzione. Su Internet tutto questo è acuito dalla dissociazione dal corpo.

Così per chi passa ore ed ore immerso nel mondo, o meglio mondi virtuali, il risveglio deve avvenire sempre dolcemente. “Soprattutto”, continua la terapista dei genitori, “ho notato che non c’è concordanza nella coppia su quale comportamento adottare. Se madre e padre avevano deciso di spegnere il modem per tutto il pomeriggio, lei va a riaccenderlo, senza dire niente, verso le 16”. Per un figlio, questo può essere molto destabilizzante.

La IAD come spia di problemi familiari più complessi. Quando i genitori si presentano dalla psicologa, capita sovente di rendersi conto che alla base dell’assuefazione dei figli ci sono questioni irrisolte fra i due genitori. Gli incontri diventano così un’occasione per affrontarle. Oltre ad essere genitori, infatti, sono anche coppie coniugali in difficoltà. “Il confronto reciproco fra le persone che arrivano da me fa anche più di quello che posso fare io”, dice la dottoressa, “si danno un gran sostegno e si scambiano consigli pratici”. Consigli che anche le terapeute e specializzande che incontrano i ragazzi danno spesso: ad esempio, impostare una sveglia che ricordi di “disconnettersi” entro un certo lasso di tempo e se non basta, ingrandire il simbolo dell’orologio sul proprio desktop.

Il confronto è anche la cura migliore per una famiglia che deve fare i conti con il “ritiro sociale” di un figlio sul web. Bisogna parlare, capire i dettagli e lo stato d’animo del ragazzo. Fare piccoli passi per tornare in società, insieme. Bisogna anche lavorare sul senso di colpa dei genitori. “Si devono allenare a sentire la mancanza dei figli”, spiega la psicologa.

Per alcuni è più difficile di altri. “Alcune mamme” spiega la Maiuri “arrivano qui disperate perché i figli passano 4-5 ore al Pc”. Questa, all’ambulatorio, non è considerata dipendenza ma piuttosto, che ci piaccia o meno, la normalità. “Io non la chiamo mai dipendenza”, dice Federico Tonioni, “ma un nuovo modo di pensare le relazioni che può”, sottolinea facendo una pausa con la voce, “ammalare”. Quando le ore che un ragazzo passa su Internet diventano 10-12, e perfino 18 nei casi più gravi, scuola e amicizie diventano impraticabili. “Ci sono capitati ragazzi che al mattino dovevano essere vestiti dai genitori perché non si staccavano più dallo schermo”. Quando si parla di ragazzi si intende una maggioranza fra i 13 e i 17 anni. In terapia ci sono però anche mamma e papà di un trentenne che, a causa della sua dipendenza, non riesce a trovare lavoro.

La differenza fra anti-sociali e non-sociali. Fra i ragazzi bisogna distinguere fra dipendenti dal web “anti-sociali” e “non-sociali”, chiarisce l’esperto. I primi si caratterizzano per l’aggressività ed utilizzano questo comportamento come ritorsione nei confronti del controllo dei genitori. Ci sono invece persone fragili che, prima dell’avvento di Internet, si sarebbero rifugiate a casa. Per loro, la rete è una manna dal cielo. Il dottor Tonioni li chiama ‘psicotici’: su Internet non giocano a sparare agli zombie tutto il giorno ma prediligono le chat dove, magari, I maschi si fingono donne. “Queste persone non sono aggressive e hanno spesso problemi di identità” dice lo psicologo “se gli levi anche Internet, si sparano. Internet, li aiuta altrimenti non parlerebbero con nessuno”. Se i primi collaborano, per gli psicotici non esiste cura per la dipendenza ma solamente un sostegno.

La mancanza del fattore imprevedibilità (balbettii, rossori, movimenti goffi etc) e la possibilità di dimenticarsi totalmente della dimensione corporale, offre ai ragazzi psicotici “le uniche relazioni possibili”. Ci si imbarca progressivamente in un vero e proprio “ritiro sociale” che per quanto avvenga su siti social – che si tratti di chat o di gaming online- è in realtà una progressiva “dissociazione”.

Internet, come già accennato, cambia la percezione di spazio e tempo.

Il tempo digitale è più denso, è come un letto a castello anziché a due piazze”. Basti pensare al modo frenetico in cui leggiamo le pagine sul web, al multitasking che ci viene imposto dai tempi della rete. Veniamo continuamente iperstimolati: passiamo dai siti, all’email, alla pubblicità, ai video, ai social. Poiché le attese si sono azzerate, continua Tonioni, anche la nostra “capacità di attendere” è diminuita. E l’incapacità di attendere è alla base della compulsione.

Quando su Internet eseguiamo operazioni cognitive, come scrivere e-mail o lavorare, manteniamo una corretta percezione del tempo. Se, invece, siamo emotivamente coinvolti, andando a guardare l’orologio e pensando sia passato un quarto d’ora, ci rendiamo conto che è volata via un’ora – “come capita a me quando rivedo I video di Bob Marley”, dice ridendo il Dottore.

Poi, c’è lo spazio. Allo stesso modo in cui Internet ci rende incapaci di attendere, cancella anche la tolleranza per la solitudine. “Che cos’è l’intimità al giorno d’oggi, la ‘separatezza’? Quanti dormono con il cellulare acceso sotto il cuscino?”, chiede l’esperto. Le relazioni web mediate possono accadere ovunque, da qualunque stanza della casa, città o nazione ridefinendo la concezione di “vicino” e “lontano”. Se la crescita dell’uomo avviene in dialettica con il mondo circostante, riflette, “le basi della mente dei ragazzini di oggi avranno qualcosa di nuovo”.

Il ruolo dello stato e delle aziende di telecomunicazioni. “Lo stato, le grandi aziende che fanno di fronte a tutto questo?” chiediamo. C’è qualche campagna di sensibilizzazione, tutte “chiacchere” secondo Tonioni. Lottomatica, ad esempio, ha dato dei fondi all’Ambulatorio per curare il gioco d’azzardo virtuale. “Perché se ne parla tanto. Perché li hanno messi in croce, non perché sono generosi”, conclude. “Tu hai mai sentito una pubblicità di un’azienda di telecomunicazioni sui ‘filtri’ per la navigazione sul web?” chiede lo psicologo. “Tutti pubblicizzano la convenienza del proprio prodotto, nessuno parla della sicurezza per i minori”. E l’Italia è il paese che usa meno filtri in Europa, secondo le stime di Filtro.it.

Il Dottor Tonioni la chiama evoluzione. Sta succedendo, “le relazioni web mediate stanno travalicando quelle reali”. “Paradossalmente, l’era digitale l’abbiamo inventata noi ‘immigrati digitali’ e i ‘nativi’ vi sono cresciuti”. Alla comunione non si regala più un braccialetto d’oro ma un iPhone. A dieci anni smartphone e tablet sono già il maggiore argomento di conversazione fra i bambini.

Gli occhi sono lo specchio dell’anima, lo dicevano anche i Greci.. “Lo sai perché?” chiede Tonioni. “Sono l’unico nervo scoperto di tutto il corpo. Anche dal punto di vista fisico, sono un nervo cavo, un canale per guardare dentro”. Lo sguardo di una persona amata può farci innamorare, uno sguardo impaurito può convincere un aggressore a retrocedere. Due occhi possono far sentire una donna violata, dice lo psicologo. Oggigiorno viviamo tra schermi trasportabili e interattivi. Si tratta di un processo evolutivo ma ogni volta che è in atto un processo evolutivo si accompagna ad un processo patologico, sottolinea il Dottore del Gemelli, dopo un intero pomeriggio passato a guardarci negli occhi. (Antonia Laterza L’Huffington Post-16 ottobre 2013).

“Tablet e smart-phone ritardano l’apprendimento nei più piccoli”

L’allarme da una ricerca del Cohen Children’s medical center di New York. I dispositivi touch-screen hanno sostituito i giocattoli tradizionali, ma i bimbi ‘tecnologici’ che utilizzano app non educative mostrano ritardi nello sviluppo del linguaggio. Le linee guida Usa e Gb sconsigliano approccio prima dei due anni e suggeriscono uso limitato.

Tutti quei genitori che si vantano dell’abilità dei propri figli con smartphone e tablet prima ancora che sappiano parlare dovrebbero in realtà preoccuparsi, perché i dispositivi con touchscreen non solo non fanno imparare più in fretta, ma rischiano di fare dei danni. Per imparare a parlare, manipolare oggetti e relazionarsi con gli altri, spiegano gli esperti del Cohen Children’s Medical Center di New York, non c’è davvero niente di meglio delle parole di mamma e papà e dei giocattoli tradizionali.

Lo studio presentato durante il congresso delle Pediatric Academic Societies and Asian Society for Pediatric Research in corso a Vancouver si basa su 63 coppie, i cui figli hanno avuto il ‘primo contatto’ con un dispositivo a schermo tattile in media a 11 mesi di età e per 17,5 minuti al giorno, ma con punte di 4 ore. Le attività principali per i bimbi sono risultate guardare show educativi (30%), usare app educazionali (26), premere a caso lo schermo (28) e fare giochi non educativi (14).

Anche se il 60% dei genitori si è detto convinto che l’uso dei dispositivi produceva un ‘beneficio nell’educazione’ nei piccoli, test cognitivi hanno dimostrato che non c’era nessuna differenza tra i bambini ‘tecnologici’ e quelli non. Anzi, nei piccoli che giocavano con app non educative si è notato un ritardo nello sviluppo del linguaggio. “Abbiamo osservato nella nostra clinica che il giocattolo numero uno che i genitori danno ai figli sono gli smartphone – afferma Ruth Milanaik, l’autore principale dello studio – che ormai ha sostituito i libri e i giocattoli ‘tradizionali’. La tecnologia però non può rimpiazzare il contatto diretto con i figli, che è la miglior fonte di apprendimento”.

La preoccupazione degli esperti per la sempre maggiore esposizione dei bambini ai dispositivi elettronici è crescente, e ha portato all’emanazione di linee guida sia da parte dell’associazione dei pediatri statunitensi che dell’omologa britannica in cui si consiglia alle famiglie di non far usare i dispositivi fino ai due anni, e poi di concederli al massimo per un’ora al giorno. Dalla Gran Bretagna è arrivato un altro allarme durante il congresso dell’associazione insegnanti, secondo cui i bimbi alla materna sanno far scorrere uno schermo ma non hanno le abilità cognitive per usare le costruzioni, oltre ad avere difficoltà nelle relazioni con i compagni e gli insegnanti (Roma-03 maggio 2014).

Il dottore che prescrive passeggiate nella natura anziché medicine

“Dottore, ho male qui, e poi è un periodo che mi sento un po’ giù, cosa posso prendere?”
“Vada a fare una bella passeggiata al parco, una volta al dì, prima dei pasti.”

Detta così è un po’ romanzata, ma potrebbe essere del tutto verosimile visto che il dottor Robert Zarr, pediatra della Unity Health Care dell’Upper Cardozo Health Center a Washington, DC, sta destando un certo scalpore negli States con le sue ricette mediche sui generis (tanto che ne ha parlato anche il Washington Post)*.

Il dottor Zarr è convinto di una cosa che anche noi sappiamo bene e che ormai è dimostrata con evidenza scientifica: stare nella natura fa solo bene. Obesità, diabete, disturbi dell’attenzione e altre conseguenze della sedentaria vita urbana sono ormai considerati delle vere emergenze nazionali negli USA (da cui, per esempio, il programma della first lady Michelle Obama Let’s Move per indurre a una vita più attiva e più sana). Il dottor Zarr non si arrende alle prescrizioni di Ritalin e altri farmaci del genere e ha deciso un approccio diverso per i suoi pazienti, che spesso provengono dalle zone più disagiate della città e, non avendo un’assicurazione sanitaria, non possono permettersi l’accesso alle cliniche private: provare a vivere in modo più attivo e sano anche risiedendo in una metropoli.

Detta così pare semplice da dire, ma difficile da farsi. E allora il dottor Zarr ha messo in piedi un sito in cui censisce e monitora ogni spazio verde della città: un giardinetto, un piccolo triangolo verde all’incrocio di due strade, un parco urbano, un’area incolta non fanno differenza per il dottor Zarr, che ne valuta l’accessibilità, la sicurezza e il tipo di frequentazione e poi li inserisce in un grande database organizzato per codice postale (il DC Park Rx), di modo che i suoi pazienti possano trovare facilmente un piccolo angolo verde vicino a casa.

Quello del dottor Zarr è un vero e proprio park prescription program, e la sua è un’attività di counseling: per ogni area verde suggerisce cosa si può fare (passeggiate? Jogging? Percorso vita? Calcio? Arrampicata?) e accompagna i suoi pazienti con un follow up che ora riguarda anche gli adulti e le famiglie dei bambini che si rivolgono a lui.

Il dottor Zarr è forse un rivoluzionario ma non un pioniere, visto che il suo approccio medico segue il programma Healthy Parks Healthy People US lanciato nel 2011 e ora sostenuto da un numero sempre maggiore di strutture sanitarie statunitensi pubbliche e private.

In tutto questo il dottor Zarr sta anche raccogliendo una enorme mole di dati su indice di massa corporea, diabete, curve di crescita e altri dati statistici con l’obiettivo di favorire la nascita di una “next generation of environmental stewards”.

*(articolo completo al seguente link: https://www.washingtonpost.com/national/health- science/why-one-dc-doctor-is-prescribing-walks-in-the-park-instead-of- pills/2015/05/28/03a54004-fb45-11e4-9ef4- 1bb7ce3b3fb7_story.html?noredirect=on&utm_term=.34f8df477096 ). (7 giugno 2015 – Claudio Gervasoni.

Scuola, la prescrizione della pediatra di Taranto: “Un’ora di gioco libero al giorno”

I genitori di un bambino lamentavano lo scarso rendimento scolastico e la dottoressa, vedendolo stanco e pallido, gli ha prescritto di divertirsi. Raccogliendo critiche o commenti entusiastici “Un’ora di gioco libero al giorno”. E’ la prescrizione medica firmata da una pediatra di Taranto.

La dottoressa Annamaria Moschetti non è un medico qualunque. Da sempre in prima linea per curare e prevenire i rischi connessi all’inquinamento nella città dell’Ilva. E sabato 10 dicembre insieme all’ordine dei medici di Taranto analizzerà il dossier presentato dal ministero della Salute che, dopo il boom di tumori, puntano l’indice contro gli effetti neurologici sui bambini che vivono a ridosso delle ciminiere.

Questa volta il nemico da sconfiggere non è l’inquinamento ma l’eccesso di stimoli- impegni-obblighi che scandisce la vita dei più piccoli. Nei giorni scorsi, ricostruisce lo scrittore Giancarlo Visitilli, un bambino pallido e stanco ha fatto visita alla sua pediatra, accompagnato dai genitori.

La pediatra ha chiesto al bambino: “Ma tu preferiresti prendere tutti dieci a scuola o otto, o giocare almeno un’ora liberamente?”. Alla risposta del bambino è seguita la ricetta medica “da consegnare a scuola alla tua maestra”: un’ora di gioco libero al giorno. La ricetta, pubblicata dalla stessa pediatra sul proprio profilo facebook, ha fatto rapidamente il giro del web raccogliendo critiche o commenti entusiastici. (08 dicembre 2016- Paola Russo).

“Un chilometro al giorno a piedi e torniamo in classe concentrati”

L’idea arriva dalla Scozia. A Buttigliera, nel torinese, 700 bambini passeggiano ogni mattina nei prati intorno la scuola: “Così preveniamo anche il rischio obesità”

BUTTIGLIERA. Un chilometro al giorno nei prati intorno la scuola per allontanare il pericolo del sovrappeso e tornare in classe più rilassati e concentrati. Le scuole elementari e medie di Buttigliera, Rosta e Ferriera – nel torinese – sono state tra le prime in Italia a puntare su questa ricetta semplice ma efficace per il benessere psico-fisico dei propri alunni. Ogni mattina, dalle 10,45 fino alle 10,55, circa 700 tra bambini e ragazzi, accompagnati dai loro insegnanti, seguono con passo garibaldino un itinerario che si sviluppa in parte all’interno dell’istituto, in parte nel verde che circonda gli edifici scolastici. «Una figata pazzesca – commenta un ragazzino biondo stretto nella sua felpa d’ordinanza – dopo ore che stai in classe ti sembra un po’ di soffocare. Così ci sentiamo più liberi, è come la vostra pausa caffè, solo che ci muoviamo». E se proprio in quell’orario c’è un compito in classe o un’interrogazione? Il biondino abbassa lo sguardo. «In quel caso – risponde il docente di italiano Franco Miglio – ovviamente hanno la precedenza i compiti, ma tendenzialmente cerchiamo di fare la passeggiata tutti i giorni, pure d’inverno. Anche perché quando ritornano sui banchi i ragazzi sono come ricaricati e riescono a concentrarsi decisamente meglio».

L’idea arriva dalla Scozia, dove l’hanno ribattezzata “Un miglio (corrispondente a circa 1,6 km) al giorno”. Tra anni fa la preside della scuola della cittadina di Stirling notò che diversi allievi, a causa di un inizio di obesità, non riuscivano a svolgere alcuni semplici esercizi in palestra. Da qui l’intuizione del miglio collettivo e quotidiano, con monitoraggio medico. Bene, in trentasei mesi di passeggiate di classe il problema del sovrappeso era molto ridimensionato. «Nel nostro caso – osserva Paolo Moisé, l’insegnante di educazione fisica a Buttigliera – non c’era tanto il problema dell’obesità, anche se alcuni ragazzi fanno una vita un po’sedentaria. L’idea, lanciata nel settembre del 2105 dal collega Cosimo Iannuzzi che poi si è trasferito in un’altra scuola, era soprattutto quella di favorire il benessere psico-fisico degli allievi. Certo, se vogliamo è un modo per pervenire il rischio obesità e comunque per molti questa passeggiata ha costituito lo stimolo per incominciare a fare un’attività sportiva al di fuori dell’orario scolastico».

«Crediamo molto nel progetto – osserva la dirigente Maria Gabriella Parente – ed è piaciuto anche ai genitori che hanno autorizzato in massa i propri figli a partecipare».

L’iniziativa di Buttigliera e Rosta è divenuta l’argomento di una tesi di laurea. Nei mesi scorsi, un ricercatore della facoltà torinese di Scienze motorie ha sottoposto gli allievi ad una serie di test. «C’è una letteratura scientifica – ragiona ancora il professor Miglio – che documenta come camminare fa bene. Questo gesto di ogni giorno ci mette in contatto con la natura e migliora la socializzazione. Fra noi c’è un ragazzino autistico che adora camminare e correre: ecco lui è particolarmente entusiasta del nostro miglio quotidiano. E poi il contesto informale facilita il rapporto docenti-allievi: i ragazzi ci confidano delle cose che magari in classe non emergerebbero…». Un miglio (o giù di lì) al giorno, toglie la timidezza di torno. (05 Aprile 2017 MAURO PIANTA).

I bambini non sanno più muoversi, l’allarme lanciato da uno studio dell’istituto educativo del Lazio

Bambini che passano la giornata a giocare al tablet o al cellulare, poca vita all’aria aperta e movimento. In pochi anni le condizioni di salute e benessere fisico dei bambini stanno peggiorando in modo preoccupante.

Secondo uno studio condotto dalla Regione Lazio su ragazzi delle medie si può osservare che due ragazzi su tre non sanno eseguire una capriola in avanti, attività che un tempo si imparava spontaneamente sui prati o sui tappeti e letti di casa.

Ma non solo: tanti ragazzini di oggi non sono capaci nemmeno di andare in bicicletta.

La scomparsa dei giochi di strada, come camminare su un muretto o arrampicarsi su un albero, sta provocando danni gravissimi: i ragazzini di oggi non hanno senso dell’equilibrio e coordinazione visuo-spaziale, in compenso hanno una muscolatura poco tonica, livelli preoccupanti di demineralizzazione ossea con conseguenti maggiori infortuni durante la poca attività fisica che viene praticata, in genere durante le ore di educazione motoria a scuola.

Questo problema non riguarda solo i bambini che non praticano nessuno “sport”: infatti le 2-3 ore di attività sportiva specializzata (che sia nuoto, corsa, pallavolo, calcio…) non sono in grado di garantire quell’armonia dei movimenti e sviluppo fisico globale che invece i vecchi giochi di cortile erano in grado di sviluppare in modo involontario.

Rincorrersi, lanciarsi la palla, arrampicarsi, saltare su un piede solo, insomma tutte quelle attività all’aria aperta che hanno garantito un sano sviluppo di generazioni di bambini di ieri sono state sostituite da immobilità nel proprio appartamento, TV e videogiochi.

Il risultato è che in pochi anni 68 alunni su 100 non hanno prestazioni sufficienti per quanto riguarda la resistenza fisica, 50 su 100 per quanto riguarda la velocità, 47 su 100 per quanto riguarda la sincronizzazione dei movimenti.

Se si pensa all’importanza del movimento fisico per la crescita, questi numeri sono impressionanti.

Il movimento dei bambini non è fine a se stesso o un semplice svago. Attraverso gli schemi motori e la relazione fisica con la realtà il bambino forma la logica mentale, apprende i concetti di prima a dopo, di spazio, di concatenazione causa-effetto, in poche parole il pensiero. Un po’ di sano movimento migliora lo sviluppo cognitivo dei bambini.

Il processo di formazione di nuove cellule nervose si chiama “neurogenesi” ed è responsabile del popolamento del cervello in crescita con neuroni. Negli esseri umani questo processo avviene soprattutto durante lo sviluppo, ma è stata dimostrata l’esistenza di una neurogenesi in età adulta che agisce, in misura limitata, in una specifica area cerebrale fondamentale per la memoria, l’ippocampo, dove la continua produzione di nuovi neuroni è compito delle cellule staminali. Movimento e apprendimento, come agevolare un migliore sviluppo cognitivo dei nostri bambini. (27 febbraio 2018 -Redazione Bimbonaturale).

Vivere in quartieri alberati fa bene alla salute: la conferma da un nuovo studio

Sembra scontato ma mettere nero su bianco i vantaggi di vivere in zone alberate è stato uno studio condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Chicago.

Basandosi su un lavoro precedente che aveva confermato il fatto che gli ambienti naturali possano aiutare la memoria e l’attenzione, Marc Berman, professore di psicologia e Omid Kardan hanno dimostrato che la presenza di alberi lungo un viale residenziale è associata ad un significativo miglioramento della salute cardiovascolare e metabolica.

Lo studio si è concentrato sulla popolazione urbana di Toronto, in Canada, e ha messo in relazione la presenza di spazi verdi e la salute degli abitanti, incrociando immagini satellitari ad alta risoluzione e dati sui singoli alberi e svolgendo 31.000 test di autovalutazione basati su questionari riguardanti la percezione della salute in generale, le condizioni cardio-metaboliche (come ad esempio malattie cardiache o diabete) e le malattie mentali provenienti dall’Ontario Health Study.

In particolare, gli scienziati si sono soffermati non sulla presenza di cespugli e prati ma solo sulla copertura data dagli alberi, convinti che possano fornire maggiori effetti benefici.

E i risultati ottenuti dimostrano quanto ipotizzato dagli scienziati canadesi: è emerso infatti che coloro che vivono nei quartieri che hanno una maggiore presenza di alberi lungo le strade hanno una percezione decisamente migliore della salute e riportano meno patologie cardio-metaboliche.

I risultati sono stati considerati anche in base a fattori demografici come reddito, età e livello di istruzione. E i numeri sembrano non lasciare spazio a dubbi. Secondo gli scienziati, piantare altri 10 alberi in un isolato “ha benefici sanitari equivalenti ad aumentare il reddito di ogni famiglia in quel blocco città di più di 10.200 dollari (circa 900o euro)” scrivono gli autori.
Inoltre, la presenza di 11 alberi in più in un unico isolato basterebbe a far calare il rischio di patologie cardio- metaboliche al pari di un aumento del reddito personale annuo di 20.000 dollari.

Perché? Secondo Kardan, potrebbero essere varie le spiegazioni. In primo luogo, chi vive in zone alberate è più propenso a camminare di più. Senza contare che la qualità dell’aria è decisamente migliore. Da non sottovalutare anche la riduzione dello stress, che incide positivamente sul nostro benessere psicofisico.

Gli scienziati però ci vanno cauti, spiegando che i dati e le analisi raccolti a Toronto non permettono di fare qualsiasi inferenza causale ma sembra quasi ovvio che la presenza di verde non possa che fare bene alla nostra salute.

Per leggere lo studio completo, https://www.nature.com/articles/srep11610

Attività fisica, l’Oms fissa le ‘dosi’ minime che prevengono le malattie

Presentate a Roma le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità nell’edizione curata dall’Uisp. L’Italia tra i paesi più sedentari ed a rischio: il 60% non fa sport né altro. Invece gli adulti dovrebbero ‘muoversi’ per 150 minuti a settimana e i giovani 60 minuti al giorno.

Almeno 150 minuti a settimana di attività fisica per gli adulti e 60 minuti al giorno per bambini e giovani. Sono due delle raccomandazioni emanate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con le nuove Linee guida per l’attività fisica 2016-2020 la cui edizione italiana, curata dalla Uisp (Unione italiana sport per tutti), è stata presentata oggi a Roma. Un documento che in una sessantina di pagine elenca le politiche generali e i comportamenti individuali che dovrebbero spingere gli europei a muoversi di più.

Le conseguenze dell’inattività: la mancanza di movimento è uno dei principali fattori di rischio per la salute. Ogni anno, infatti, in tutta Europa si verificano un milione di decessi (il 10% circa del totale) causati proprio dalla mancanza di attività fisica. Si stima che all’inattività fisica siano imputabili il 5% delle affezioni coronariche, il 7% del diabete di tipo 2, il 9% dei tumori al seno e il 10% dei tumori del colon. Inoltre, molti paesi della regione hanno visto le percentuali relative al numero di persone sovrappeso e obese aumentare negli ultimi decenni. I dati sono allarmanti: in 46 paesi (l’87% dell’Europa), oltre la metà degli adulti sono in sovrappeso o sono obesi, ed in diversi casi si arriva a sfiorare il 70% della popolazione adulta.

Italiani più sedentari. Giovani “tartarughe”.

In Europa tra le persone di età superiore ai 15 anni, sei su dieci non fanno mai esercizio o sport. Gli italiani sono tra i più sedentari, con il 60% che dichiara di non fare mai sport o attività fisica, contro una media europea del 42% e un primato, quello della Svezia, che si ferma al 9%.

A destare l’allarme è soprattutto la mancanza di attività da parte dei giovani. Solo il 34% degli adolescenti europei di età compresa tra 13 e 15 anni è fisicamente attivo ai livelli consigliati dalle presenti linee guida. Ciò contribuisce all’aumento dei bambini sovrappeso ed obesi in Europa, soprattutto tra le fasce socio-economiche più deboli. I dati raccolti dalla “Childhood Obesity

Surveillance Initiative” (l’iniziativa di monitoraggio dell’obesità infantile) condotta in Europa dall’OMS dimostrano che in alcuni paesi quasi il 50% dei bambini di otto anni di età sono sovrappeso e oltre il 25% è obeso. In quasi tutti i paesi europei, inoltre, i livelli di attività fisica praticata iniziano a calare significativamente tra gli undici e i quindici anni di età, soprattutto tra le ragazze.

L’inattività non solo ha un pesante impatto negativo in forma di costi diretti per il sistema sanitario, ma ha anche un elevato costo indiretto in termini di aumento dei congedi per malattia, delle inabilità al lavoro e delle morti precoci. Si calcola che per una popolazione di dieci milioni di persone per metà insufficientemente attive, il costo dell’inattività sia di 910 milioni di euro l’anno.

Le nuove raccomandazioni. Ma allora come invertire la rotta? Qual è la dose giusta di movimento per stare in buona salute? Nel corso del convegno di oggi – dal titolo “Per una salute da costruire insieme” – sono stati presentati i consigli specifici contenuti nel nuovo documento. L’OMS raccomanda agli adulti, anziani compresi, di praticare almeno 150 minuti a settimana di attività fisica di tipo aerobico a intensità moderata. Le raccomandazioni attuali insistono sui benefici per la salute di un’attività ad intensità moderata e sul fatto che i livelli consigliati possono essere accumulati esercitandosi per intervalli relativamente brevi di tempo. Bambini e giovani, invece, dovrebbero praticare un totale di almeno 60 minuti al giorno di attività fisica, da moderata a intensa.

Salute in movimento. Gli obbiettivi del Piano europeo sono quelli già stabiliti nel 2013 dal Piano di azione globale per la prevenzione: “Ottenere una riduzione relativa del 10% della prevalenza dell’insufficiente attività fisica entro il 2025 costituisce uno dei nove obiettivi a livello mondiale” scrive l’OMS. “Inoltre, aumentare i livelli di attività fisica è un fattore importante per il raggiungimento di altri tre obiettivi mondiali: ottenere una riduzione relativa del 25% della mortalità precoce dovuta a malattie cardiovascolari, tumori, diabete o malattie respiratorie croniche; ottenere una riduzione relativa del 25% della prevalenza dell’ipertensione, oppure, a seconda della situazione nazionale, contenere la prevalenza dell’ipertensione; fermare l’aumento del diabete e dell’obesità”.

Le “health cities”. Per favorire e incoraggiare i cittadini a muoversi di più, anche le città devono cambiare e trasformarsi in modelli di salute. “Promuovere la buona salute per tutti e per tutte le fasce di età attraverso la cultura del movimento, secondo le abilità di ciascuno, è l’obiettivo a cui la Uisp guarda da sempre nel coniugare attività fisica, educazione, ambiente, benessere e diritti di cittadinanza” ha detto stamattina Vincenzo Manco, presidente nazionale Uisp. “Le strategie dell’OMS che abbiamo presentato oggi ci incoraggiano in questo senso e ci confermano che l’impegno dell’Uisp è efficace: puntare su movimento, salute e stili di vita attivi. Chiediamo politiche pubbliche integrate e orientate a questi obiettivi”. La trasformazione delle città potrebbe avere risvolti positivi anche indiretti. E’ stato calcolato, infatti, che l’uso della bicicletta nelle grandi città creerebbe 76.000 posti di lavoro. Tra le indicazioni fornite dal documento a livello di politiche governative, vengono citati gli interventi di pianificazione urbanistica nonché di edifici scolastici, ambienti di lavoro, modalità di trasporto e spazi per il tempo libero; gli incentivi fiscali per incoraggiare l’attività fisica o scoraggiare i comportamenti sedentari e il finanziamento di progetti di promozione dell’attività fisica in diversi settori e per differenti gruppi di popolazione. (IRMA D’ARIA 06 aprile 2016 ).

I bambini passano all’aperto meno tempo dei carcerati

Secondo il sito d’informazione TreeHugger.com, ai detenuti delle carceri di massima sicurezza americani vengono garantite almeno due ore all’aperto ogni giorno, mentre la metà dei bambini in tutto il mondo passa meno di un’ora all’esterno.

Un’indagine effettuata su un campione di 12.000 genitori in dieci Stati ha riscontrato che un terzo dei bambini (dai 5 ai 12 anni d’età) passa ogni giorno meno di 30 minuti all’aperto. La ricerca, sponsorizzata dai marchi di detergenti per il bucato OMO e Persil di Unilever, ha ispirato una nuova campagna pubblicitaria: “Free the kids, dirt is good” (“Sporco è buono – liberate i bambini”).

Insomma, si è fiutato il business anche qui.

I carcerati nelle strutture di massima sicurezza in Indiana definiscono il tempo all’aperto il “clou” della loro giornata. “Non fai altro che prendere tutti i tuoi problemi e le tue frustrazioni e lasciarli là fuori”, ha riferito un detenuto. Un altro ha affermato che “gli fa tenere la testa a posto”.

Alla domanda di come si sarebbero sentiti se la loro boccata d’aria fosse stata ridotta a un’ora di tempo al giorno, i detenuti hanno risposto che sarebbero aumentati la rabbia e il risentimento. A detta di un prigioniero sarebbe stata una “tortura”. Una guardia carceraria ha affermato che la situazione sarebbe potuta diventare “potenzialmente disastrosa”.

I carcerati erano sconvolti nell’apprendere che la maggior parte dei bambini ha a disposizione meno di un’ora al giorno all’aperto: uno di loro ha definito la notizia “deprimente”. Un altro ha affermato che potendo esaudire un desiderio avrebbe portato suo figlio in un parco.

Un altro studio ha rilevato che “da almeno 12 mesi un bambino su nove non ha messo piede in un parco, in una foresta, in una spiaggia o in un qualsiasi altro ambiente naturale”. Recentemente l’Huffington Post ha riferito che con bambini che passano all’aperto solo la metà del tempo rispetto a quanto ne trascorrevano i genitori, stiamo dando vita a una generazione “asociale, priva di immaginazione e inattiva”. Solo la metà dei bambini ha costruito un castello di sabbia in spiaggia, o ha fatto un pic-nic all’aperto nel proprio giardino, e oltre un terzo di loro non ha mai giocato nel fango. Inoltre circa il 50% di essi preferisce stare in solitudine davanti allo schermo anziché giocare in compagnia all’esterno.

La nostra mancanza di cultura dell’aria aperta sta producendo bambini anche malati fisicamente e mentalmente.

“Quando spendiamo tempo all’aperto siamo fisicamente attivi, quindi meno esposti alla possibilità di diventare obesi. Quando la luce del sole colpisce la nostra pelle, produciamo vitamina D, un aiuto per molti problemi di salute. Studi scientifici specializzati nel settore hanno dimostrato che il tempo trascorso all’esterno abbassa le percentuali di malattie cardiache, osteoporosi, sclerosi multipla e alcune forme di cancro. I ragazzini con ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione) riescono a concentrarsi meglio quando passano del tempo all’esterno. E stare in mezzo alla natura fa aumentare il buon umore, oltre che diminuire stress ed ansia”. (22 Marzo 2017).

Non va in bagno per non staccarsi dal videogame, bambino di 10 anni operato all’intestino

Il caso è stato raccontato da una pediatra britannica durante l’annuale conferenza dell’organizzazione NSPCC. I videogiochi possono coinvolgere a tal punto i bambini da fare in modo che non sentano nemmeno più gli impulsi corporei più basilari, come ad esempio andare in bagno, col rischio così di sviluppare problemi di salute a lungo termine. A lanciare l’avvertimento è stata la pediatra Jo Begent dell’University College London Hospital che, intervenendo nel corso della conferenza annuale della NSPCC (la principale organizzazione non profit britannica per l’infanzia), ha citato il caso di un bambino di 10 anni, operato d’urgenza all’intestino dopo aver passato otto ore di fila attaccato alla consolle, senza staccarsi nemmeno per fare pipì. «Un giorno nella mia clinica pediatrica si è presentato un ragazzino di dieci anni che zoppicava ed era conciato davvero male – ha raccontato infatti la dottoressa Begent – ma quello che mi ha mandata nel panico è stata la massa enorme che gli usciva dal bacino e che in un primo momento credevo fosse un tumore. I successivi controlli hanno invece evidenziato una grave dilatazione del bacino e una costipazione spaventosa». Caso limite ma… Come si legge sul Daily Mail, a quel punto la pediatra ha voluto capirci qualcosa in più, ma quello che ha poi scoperto è stato a dir poco sconcertante. «Quando ho approfondito la questione, è venuto fuori che la vescica e l’intestino si erano deformati in quel modo perché il ragazzino aveva smesso di andare in bagno per non doversi staccare dal suo videogame – ha continuato la Begent – ed era talmente preso dal gioco da ignorare anche i bisogni corporei basilari, perché considerati fonte di distrazione». Pur trattandosi di un caso limite, la pediatra ha sottolineato come social media e videogame stiano avendo un impatto sempre maggiore e sempre più pericoloso sulla salute fisica e mentale di bambini e adolescenti. «Negli ultimi anni abbiamo registrato un aumento esponenziale di casi – ha concluso la Begent – e se inizialmente i problemi erano legati alla mancanza di sonno e all’obesità, ora invece riguardano anche aspetti psico-fisici molto più profondi e che possono avere risvolti potenzialmente drammatici».

La dipendenza da videogiochi è una malattia?

Proprio di recente l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha messo la dipendenza da videogiochi nella categoria malattie mentali, inserendo il cosiddetto gaming disorder nell’ultima revisione della International Classification of Diseases (Icd-11), l’elenco che contiene tutte le patologie riconosciute, oltre 55mila, usato per le diagnosi dai medici di tutto il mondo. La nuova versione verrà adottata a partire dal 2022.

APPROFONDIMENTO

300mila italiani tra i 12 e i 25 anni a rischio dipendenza da internet

I dati Istat segnalano che quasi il 95% dei teenager italiani tra 14 e 19 anni utilizza internet. Studi internazionali indicano che l’utilizzo della tecnologia può diventare problematico in una percentuale compresa tra l’1 e il 4% circa di questi ragazzi. «Le stime nostrano contano circa 300mila giovani tra i 12 e i 25 anni con dipendenza da internet – dice Claudio Mencacci, direttore Dipartimento Neuroscienze e salute mentale dell’ASST FBF-Sacco di Milano. Gli adolescenti di oggi sono stati correttamente definiti “nativi digitali”: vivono il proprio sviluppo identitario in un mondo in cui uno degli aspetti centrali è rappresentato dalla tecnologia, ma è fondamentale comprendere quale possa essere l’effetto di questi strumenti nel percorso di modellazione cerebrale del loro cervello. Ed è determinante che loro stessi comprendano i pericoli a cui si espongono se esagerano, proprio come si fa con fumo o droghe».

Cosa succede al cervello in adolescenza?

«Attraverso il periodo adolescenziale il cervello viene plasmato assumendo quella che rimarrà, almeno in gran parte, la sua struttura e il suo funzionamento adulto – chiarisce Mencacci -. Si verificano infatti importanti rimaneggiamenti a livello cerebrale: si tratta di processi di maturazione di alcune strutture quali la corteccia prefrontale e i sistemi subcorticali. Questo permette alle connessioni neurali di essere più efficienti favorendo i cambiamenti cognitivi, emotivi e comportamentali specifici di questa età. Da questa considerazione deriva la straordinaria importanza del periodo adolescenziale e la necessità di tutelare il corso dello sviluppo, favorendo l’esposizione a fattori “positivi” (non solo biologici ma anche affettivi, relazionali ed educativi) e riducendo l’esposizione a fattori tossici (anche in questo caso sia fisici – come alcol e sostanze – ma anche esperienziali)».

Quali sono i problemi a cui i ragazzi vanno incontro?

«L’adolescenza è un periodo centrale del percorso di sviluppo individuale – che richiede la stessa attenzione dell’infanzia – spiega Francesca Merzagora, presidente dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda), che ha organizzato l’evento di presentazione del libro tenutosi nei giorni scorsi a Milano -. È una transizione neurobiologica fondamentale per dare forma al cervello adulto, oltre che una transizione psicologica e di ruolo. In questo periodo della vita possono dare segno di sé, varie manifestazioni di sofferenza psichica. Il ruolo della famiglia è centrale per individuare i rischi a cui sono esposti gli adolescenti e non deve essere esclusivamente mirato solo a esperienze “limite” (come disturbi del comportamento, aggressività, autolesionismo) ma prestare attenzione anche a fenomeni più sfuggenti come l’abuso di nuove tecnologie che mette a rischio le competenze emotive, affettive, sociali e relazionali, oltre naturalmente all’apprendimento scolastico».

Quali sono i campanelli d’allarme a cui prestare attenzione?

«I segnali a cui prestare attenzione sono prevalentemente aspecifici e possono presentarsi in condizioni molto differenti – continua Merzagora. Tra questi bisogna prestare attenzione a problemi del sonno (insonnia, risvegli notturni, ipersonnia diurna), manifestazioni somatiche frequenti (cefalea, nausea, vomito), comportamenti aggressivi (ad esempio quando i ragazzi vengono interrotti durante l’utilizzo di questi mezzi), utilizzo di sostanze. Il ritirarsi dalle relazioni sociali può costituire un importante segno dell’emergere di difficoltà sociali o emotive celate, potendo rappresentare una delle prime manifestazioni psicopatologiche. Allo stesso tempo un disinvestimento rispetto alle attività e agli hobby quotidiani, o cambiamenti importanti nel funzionamento scolastico devono essere valutati attentamente».

I possibili danni cerebrali sono scientificamente provati?

«Nella letteratura internazionale sono ormai stati pubblicati numerosi studi che segnalano gli effetti sullo sviluppo cerebrale dell’utilizzo eccessivo di smartphone, videogiochi, internet e social network – risponde Giovanni Migliarese, coautore del libro e responsabile del Centro ADHD Adulti della Asst-Fbf-Sacco -. Un dato interessante, seppur preliminare, deriva dal riscontro di vere e proprie modificazioni della materia bianca (prevalentemente dei fasci di connessione cortico-subcorticali) in ragazzi con dipendenza marcata. Ma certo servono ulteriori analisi per valutare a pieno la portata di questo fenomeno, di cui però abbiamo già diverse avvisaglie».

Quali i rischi? L’isolamento

«Gli smartphone, grazie ai social network, al gaming e a internet, hanno una fortissima attrattiva – prosegue Mencacci -. Ogni “like” ricevuto su Facebook o Instagram attiva il circuito del reward (o ricompensa), ovvero quell’area del cervello legata al piacere. È per questo motivo che è facile essere spinti a un utilizzo eccessivo di questi mezzi, soprattutto se non vi sono regole esterne che lo impediscono. L’utilizzo eccessivo della tecnologia è complesso da contrastare e tende ad auto-mantenersi. Può rappresentare essere una soluzione inconsapevole a difficoltà nella vita reale: in internet o su Facebook c’è l’illusione di essere pieni di amici anche in quelle situazioni in cui i legami reali sono complessi da stabilire. Questo porta a investire in relazioni virtuali, apparentemente appaganti, che dunque possono favorire un isolamento relazionale reale. Molti ragazzi, ritirati e chiusi nelle loro stanze, hanno per esempio un’intensa vita di relazioni virtuali attraverso la rete».

Quali i rischi? Problemi di attenzione

I mezzi tecnologici spingono verso modalità di attenzione differenti: creano la necessità di maggior flessibilità e rapidità. I videogame, per esempio, sono costruiti per richiedere un’attenzione di tipo visivo, breve e intensa e risposte rapide. C’è inoltre una maggior tendenza al multitasking che favorisce l’attenzione diffusa ma in molti studi è stata associata a un peggioramento delle performance. «L’effetto della tecnologia sembra avere un impatto significativo in condizioni specifiche caratterizzate da difficoltà nella modulazione dell’attenzione, come per esempio nei ragazzi con ADHD – sostiene Migliarese. Alcuni studi mostrano per questi ragazzi una maggior tendenza all’utilizzo di diversi tipi di device e allo stesso tempo il rischio di un’esacerbazione della sintomatologia associata a questo comportamento. Non bisogna comunque demonizzare questi strumenti che entrano a far parte anche dell’armamentario terapeutico: sono per esempio state sviluppate diverse app per aiutare soggetti con questo disturbo ad avere una maggior organizzazione dei tempi o della propria vita. L’aspetto centrale, come in tutto e di sapere pregi e rischi dei mezzi tecnologici e cercare di utilizzarli con modalità corrette».

Quali i rischi? Disturbi di memoria

Anche la memoria è influenzata dallo sviluppo tecnologico: viene sempre più esternalizzata, ovvero demandiamo al cellulare o a internet la conservazione di un numero sempre maggiore di informazioni. Ci sono oggetti e applicazioni per ricordarsi di ogni cosa, non solo i numeri di telefono, ma la posizione dove abbiamo parcheggiato, o dove abbiamo lasciato le chiavi della macchina. Utilizzando con eccessiva frequenza la tecnologia generalmente impariamo e ricordiamo meno dalle nostre esperienze. È stato segnalato che soggetti con elevata tendenza al multitasking perdono capacità di mantenere rappresentazioni pertinenti nella memoria di lavoro. Questo comporta una ridotta capacità di attingere al passato (sia molto recente o più remoto) per informare il comportamento presente, aspetto che diventa fondamentale soprattutto nel periodo adolescenziale. L’adolescenza può infatti essere anche definito lo spazio della memoria, ovvero uno spazio dove si fa da collante tra il passato e il suo lascito e la progettualità adulta.

Quali i rischi? Il ritmo sonno-veglia

La deprivazione di sonno, specialmente quando è cronica, può produrre conseguenze a lungo termine in termini di formazione dei circuiti cerebrali. Il sonno ha infatti un ruolo fondamentale nella plasticità neuronale. «Gli smartphone possono mettere a repentaglio il ritmo sonno-veglia in più modi – spiega Mencacci: oltre ad essere “attivante” sul piano psichico (potendo incrementare ansia, eccitazione o delusione), l’uso di mezzi elettronici di notte espone i ragazzi alla luce brillante, che invia un segnale stimolante al cervello, interferendo con l’insorgenza e il mantenimento del sonno». Sono molto frequenti gli studi che sottolineano come anche la sola presenza di un device è fonte di sovraeccitazione: i ragazzi faticano a dormire perché ricevono alert, perché devono controllare i messaggi su WhatsApp o i “like” su Facebook, oppure perché devono collegarsi per un gioco online.

Quali i rischi? Disagi emotivi e affettivi

Il legame tra uso della tecnologia e sintomi emotivo/affettivi è complesso. «Ragazzi con episodi depressivi o con disturbi d’ansia significativi per esempio si possono chiudere in casa e attaccarsi al computer o al telefonino. In questo caso la tecnologia serve da ansiolitico (da “scacciapensieri”) ma anche da riempitivo (per sconfiggere la noia del malessere) e rende più difficile poter intervenire – prosegue Mencacci -. La tecnologia fa da lente di ingrandimento: amplia le conoscenze tecniche, permette un sapere estremamente approfondito in alcuni ambiti e un’elevatissima specializzazione. La tecnologia in se stessa non facilita però la reale formazione di tutte quelle competenze socio-relazionali-affettive di base che fungono da collante nelle relazioni interpersonali. E’ all’interno di una relazione reale che riconosciamo l’altro, che impariamo a comprendere e maneggiare le nostre emozioni, la loro intensità, la loro ricchezza, la loro reciprocità. Le relazioni virtuali non hanno la profondità emotiva delle relazioni reali, pur ricordandole».

Quali i rischi? Modificazione dei concetti di tempo e spazio

La tecnologia comporta una modificazione dei concetti di tempo e spazio, permettendo di osservare una profonda accelerazione dei ritmi di vita e allo stesso tempo riducendo le distanze. Questa riduzione dei tempi e degli spazi favorisce una sovrabbondanza di informazioni e di richieste. Si possono dunque osservare ragazzi che faticano a gestire le sollecitazioni e le richieste, come se il tempo non fosse mai sufficiente. Questo può comportare una continua tensione che si esplicita nel continuo pensiero di controllare lo smartphone, nell’essere interrotti nel momento in cui ci si sta concentrando per lo studio dall’arrivo di un email, eccetera. Inoltre, la paura di “perdersi qualcosa” se non si è connessi può favorire sintomi d’ansia, stress e insonnia.

Genitori, cosa fare e cosa evitare?

«Il ruolo dei genitori è fondamentale anche durante l’adolescenza e non soltanto nel periodo dell’infanzia – concludono gli esperti -. In primis i genitori devono essere presenti, non tanto o solo nei tempi, ma nell’attenzione, nello sguardo: devono cercare di mantenere i propri figli “dentro il radar”. Non possono farsi escludere completamente dalla loro vita. Mantenere spazi di condivisione è importante e permette di capire come i ragazzi stanno crescendo, che tipo di potenzialità stanno sbocciando e quali difficoltà si trova ad affrontare. Inoltre un genitore ha il diritto di difendere delle regole, ad esempio nell’utilizzo della tecnologia. Non è indicato utilizzare lo smartphone durante i momenti di condivisione familiare: come a tavola, nelle ore notturne o per periodi di tempo eccessivi (il limite non va imposto, ma concordato o negoziato, come si fa per gli orari di rientro la sera, ma in generale non bisogna superare le 3 ore giornaliere attaccati allo schermo, ndr). Il cellulare, poi, non può essere utilizzato per risolvere ogni cosa, dai compiti ai problemi di amicizia. Un genitore può far saper al proprio figlio che lo smartphone non è un diario segreto e che non è protetto dalle stesse regole: per questo mamme e papà hanno il diritto di accedere, ha il diritto di controllare di che natura sono i legami diretti che lo smartphone permette, a tutela dei ragazzi stessi». (22 giugno 2018 di Simona Marchetti)

Obesità infantile, Grecia e Italia le peggiori in Europa. Bene i tedeschi

La nuova mappatura evidenzia che in 9 Paesi Ue 1 bambino su 3 è in sovrappeso. Tra gli adulti, invece, l’Italia è tra le più virtuose, gli inglesi peggiorano con l’età. Stiamo insegnando male ai nostri bambini?

È allarme obesità infantile in Europa, con 9 dei 28 paesi dell’Unione Europea (Regno Unito compreso) dove la percentuale di bambini di 11 anni in forte sovrappeso oppure la percentuale di obesi è superiore al 30%, con punte addirittura del 39% in Grecia e a Malta.

Fallita educazione alimentare

A rivelarlo è la nuova mappatura realizzata dal Joint Research Centre della Commissione Europea per mostrare come i bambini del Vecchio Continente siano a fortissimo rischio di obesità, una condizione che può aprire la strada a gravi patologie quali diabete di tipo 2, malattie cardiache e cancro. Usando i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, i ricercatori hanno evidenziato le diverse aree sulla cartina dell’Europa, differenziandole cromaticamente con diverse sfumature di arancione a seconda dei valori riscontrati: la tonalità più scura indica infatti i paesi dove più del 35% di undicenni è risultato obeso o in sovrappeso e la più chiara quelli dove la percentuale è inferiore al 20%, mentre nel mezzo ci sono tre ulteriori sottogruppi (identificati con altrettante gradazioni di arancione) dove i valori sono fra il 21 e il 25%; il 26 e il 30% e il 31 e il 35%. E con un tasso di obesità infantile pari al 31%, l’Italia fa parte proprio di quest’ultimo elenco, che comprende anche Bulgaria, Romania, Ungheria, Croazia, Polonia e Spagna, mentre Irlanda, Danimarca e Paesi Bassi hanno fatto registrare i risultati migliori, con valori compresi fra il 13 e il 15%. Ma d’altra parte alcuni studi sostengono che ormai la “vera” dieta mediterranea si fa solo nei Paesi scandinavi mentre noi l’abbiamo progressivamente abbandonata.

Il buon risultato da adulti dovuto al passato?

Sempre lo stesso studio europeo ha inoltre evidenziato i valori di obesità e sovrappeso fra gli adulti, suddivisi in base a tre livelli di istruzione (fino alle scuole medie; dalle superiori ai corsi post diploma non universitari e dalla laurea triennale al dottorato o equivalente), per vedere se un bambino obeso o in sovrappeso si trasformi automaticamente in un adulto con gli stessi problemi alimentari. E in questo caso gli adulti italiani hanno sovvertito la tendenza infantile, facendo registrare i risultati più lusinghieri in due gruppi su tre, mentre gli inglesi peggiorano sensibilmente. In altre parole, dall’analisi delle cartine è emerso che in Italia gli adulti stanno generalmente bene, ma manca una corretta educazione infantile per quanto riguarda l’alimentazione, il che potrebbe spiegare l’elevata percentuale di bambini italiani con problemi di peso. Un dato peraltro confermato anche dagli ultimi risultati del WHO Childhood Obesity Surveillance Initiative (COSI), che aveva attribuito proprio al nostro Paese la maglia nera dell’obesità infantile, col 21% di bambini obesi o in sovrappeso, pari a uno su cinque. (di Simona Marchetti 11 luglio 2018).

Adolescenti. Rischio Adhd per chi chatta o gioca troppo sul web

Gli adolescenti che passano molto tempo sul web, giocando o chattando con gli amici su smartphone o tablet, corrono un rischio maggiore di sviluppare sintomi del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) rispetto ai giovani che non lo fanno.

È quanto suggerisce uno studio americano pubblicato da Jama – (Reuters Health) – Un gruppo di ricercatori Usa, guidato da Adam Leventhal, dell’Health, Emotion & Addiction Laboratory dell’University of Southern California di Los Angeles, ha seguito più di 2.500 studenti delle scuole superiori di Los Angeles per oltre due anni informandosi, attraverso questionari, sui sintomi riconducibili ad ADHD, come difficoltà nell’organizzare e completare i compiti, difficoltà a restare fermi o rimanere concentrati sulle attività. I ricercatori hanno quindi valutato i ragazzi ogni sei mesi per vedere quanto spesso svolgessero determinate attività come inviare messaggi, vedere video in streaming e condivisioni sui social.

I risultati

All’inizio dello studio nessuno degli studenti aveva sintomi di ADHD. Gli utenti ad alta frequenza svolgevano queste attività più volte al giorno. Tra 51 studenti di questo gruppo, circa l’11% ha sviluppato sintomi di ADHD prima della fine dello studio. E tra altri 114 partecipanti, sempre del gruppo che usava di frequente telefonini e tablet, il 10% ha sviluppato gli stessi sintomi. Mentre tra 495 adolescenti che non facevano queste attività di frequente, poco meno del 5% ha sviluppato i sintomi riconducibili all’ADHD.

“Questo studio solleva nuove preoccupazioni sul fatto che la proliferazione di tecnologie multimediali possa mettere a rischio i giovani per l’ADHD”, spiega Adam Levanthal, “Anche se l’uso di mezzi digitali con moderazione può fornire vantaggi, come l’accesso a informazioni educative o supporto sociale, l’eccessiva esposizione può avere conseguenze negative per la salute mentale”. (18 LUGLIO 2018 Lisa Rapaport).

Pet therapy e ADHD: quando la vicinanza di un animale domestico può avere effetti benefici

Seguire un percorso di psicoterapia che include attività di pet therapy porta notevoli vantaggi nel trattamento del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) permettendo un miglioramento più veloce grazie ad una riduzione della disattenzione e un miglioramento delle abilità sociali.

Una nuova ricerca rileva che la Pet Therapy (ovvero la terapia che sfrutta la relazione tra individuo e animale) aiuta a ridurre i sintomi del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) nei bambini.

La vicinanza ad un animale può avere effetti benefici sui bambini con ADHD. A dimostrarlo sono stati i ricercatori dell’University of California Irvine (UCI) con uno studio che rappresenta il primo trial randomizzato sull’argomento.

Pet Therapy e ADHD: la ricerca

La ricerca, condotta da Sabrina E.B. Schuck, Ph.D., ha coinvolto bambini dai 7 e 9 di anni età con diagnosi di ADHD che non avevano mai assunto farmaci.
I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: il primo gruppo è stato sottoposto a psicoterapia, mentre il secondo ha seguito un percorso psicologico che, accanto ad interventi psicoterapici, prevedeva pet therapy con la presenza di cani certificati per l’assistenza.

Ciò che è emerso dai risultati, è stato che il gruppo di bambini con ADHD che avevano ricevuto le attenzioni degli animali in combinazione ad interventi psicologici, avevano ottenuto significativi benefici in tempi più brevi rispetto al gruppo di controllo che aveva usufruito solo della psicoterapia, riscontrando una riduzione della disattenzione e un miglioramento delle abilità sociali.

Solamente con le sedute psicoterapiche i sintomi hanno avuto un miglioramento in 12 settimane, mentre i ricercatori hanno dimostrato che gli interventi di pet therapy hanno accelerato i tempi rispetto alla terapia tradizionale. L’associazione di terapia psicoterapica e pet therapy ha portato un miglioramento dei sintomi dei bambini in 8 settimane.

I primi ad accorgersi dei benefici che vengono procurati ai bambini con la pet therapy, sono stati i genitori. La nostra scoperta che i cani rendono più efficace la psicoterapia e aiutano a migliorare la concentrazione è molto significativa – ha detto Schuck. Grazie a questo studio le famiglie ora hanno terapie alternative o aggiuntive ai trattamenti farmacologici per l’ADHD. (Lucia Marangia – 07 settembre 2018).

Oltre un adolescente su cinque presenta un uso problematico di Internet

È il quadro che emerge dai risultati di uno studio condotto presso la Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli” IRCCS – Università Cattolica del Sacro Cuore e pubblicato sulla rivista internazionale “Frontiers in Psychiatry”.

È elevata la prevalenza degli adolescenti italiani con comportamenti a rischio di dipendenza da sostanze e non solo: oltre il 22% dei giovani che frequentano le scuole superiori presenta un rapporto disfunzionale con il Web. È il dato che emerge da uno studio effettuato presso la Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli” IRCCS – Università Cattolica del Sacro Cuore e pubblicato sulla prestigiosa rivista “Frontiers in Psychiatry”.

La ricerca è stata condotta dal Dottor Marco Di Nicola e coordinata dal Professor Luigi Janiri dell’Unita operativa Complessa del Gemelli e Istituto di Psichiatria e Psicologia dell’Università Cattolica e dimostra anche una relazione tra l’uso problematico di Internet ed un peggiore rendimento scolastico, oltre che alcuni tratti di personalità e caratteristiche psicologiche già associati al rischio di sviluppare disturbi psichici.

La ricerca ha coinvolto 996 ragazzi che frequentano le scuole superiori (240 maschi e 756 femmine, con un’età media di circa 16 anni) valutati mediante questionari specifici atti a indagarne le caratteristiche sociodemografiche, l’abitudine al fumo di sigaretta, l’uso di alcolici e di altre sostanze d’abuso, il rendimento scolastico e i comportamenti a rischio di dipendenza (uso di Internet, gioco d’azzardo, esercizio fisico).

“Il consumo frequente di alcolici e l’uso di sostanze sono risultati molto comuni nei maschi”, spiega il Dottor Di Nicola, “ma rispetto al passato le differenze di genere sono sempre meno evidenti, soprattutto per quanto riguarda i cannabinoidi ed il binge drinking (abbuffate alcoliche)”.

L’uso problematico di Internet è stato rilevato nel 22,1% dei giovani senza differenze tra maschi e femmine. “Tale fenomeno”, spiega l’esperto “è stato valutato con un’intervista e con test specifici che esplorano l’impatto dell’uso di Internet sulla quotidianità (scuola, lavoro, rapporti familiari e relazioni interpersonali, durata e qualità del sonno, etc.) e il grado di disagio che i giovani sperimentano quando non possono accedere al Web con le modalità desiderate. Si tratta di un comportamento altamente disadattivo (con ripercussioni significative sul funzionamento generale del soggetto) anche se non si può parlare ancora di una vera e propria “dipendenza”.

Inoltre, il 9,7% degli adolescenti valutati ha descritto delle modalità di gioco problematiche, con un elevato rischio di sviluppare una condizione di gioco d’azzardo patologico. I maschi riportano tale condotta più frequentemente delle femmine (29,9% vs. 3,7%).

E ancora, il 6,2% del campione ha riferito di praticare esercizio fisico in maniera eccessiva (in questo caso è stato valutato il grado di coinvolgimento in attività sportive, le ripercussioni negative sul funzionamento quotidiano e sulle relazioni interpersonali, oltre che sull’umore quando i soggetti non possono allenarsi come vorrebbero).

Le condotte di dipendenza studiate, sia da sostanze sia comportamentali, sono risultate associate ad una ridotta performance scolastica: più grave è la problematica del ragazzo, peggiore è il suo rendimento, sottolinea il Dottor Di Nicola.

Infine, tratti di personalità e caratteristiche psicologiche come l’incapacità di provare piacere, l’impulsività, la difficoltà a riconoscere e descrivere le proprie emozioni e la tendenza alla dissociazione, correlano con il rischio di comportamenti di dipendenza.

“Negli ultimi anni abbiamo assistito, tra i giovani italiani, all’abbassarsi dell’età del primo contatto con le sostanze d’abuso, all’aumento del poliabuso, di comportamenti quali il binge drinking e la drunkoressia (sottoporsi a restrizione alimentare prima di consumare alcolici, sia per limitare l’introito calorico ed evitare di prendere peso, sia per potenziare gli effetti euforizzanti e disinibenti dell’alcol), nonché dell’uso problematico di Internet e del gioco (prevalentemente online), con un incremento del rischio di sviluppare in età adulta dipendenze patologiche e disturbi psichici”, conclude il Professor Janiri. (20 Luglio 2018).