Dipendenza da Videogioco: conseguenze in età adolescenziale e Neuroplasticità

La Plasticità Cerebrale

Nell’ampio panorama di studi che si occupano del recupero delle funzioni cerebrali in seguito a dipendenze, si sono sviluppate nuove linee di ricerca che hanno ampliato le nostre conoscenze in questo settore. Un importante contributo è stato fornito dall’allargamento del concetto di plasticità cerebrale. Per neuro-plasticità s’intende la capacità del sistema nervoso centrale di andare incontro a modificazioni strutturali e funzionali in risposta a eventi fisiologici. Durante il suo sviluppo la plasticità è massima, in risposta a determinati stimoli ambientali, come l’apprendimento, l’educazione e gli eventi patologici interni ed esterni.

Nei pazienti con dipendenze virtuali del SNC i fenomeni di plasticità cerebrale rappresentano i meccanismi alla base del recupero spontaneo e, se ben interpretati, possono costituire una base razionale per promuovere approcci riabilitativi mirati.

La sfida delle neuroscienze sta nel capire pienamente i processi di riorganizzazione funzionale dopo una fase più o meno prolungata di dipendenza, presupposto indispensabile al fine di prevederli e porli in relazione con la riabilitazione, e scoprire così modi e mezzi per evocarla, migliorarla e guidarla.

Fino a poco tempo fa, gli esperti di neuroscienze erano scettici circa l’eventualità che l’esperienza potesse modificare il cervello. Dal 1983 in poi si è riusciti a dimostrare per la prima volta che l’esercizio può portare cambiamenti nella rappresentazione corticale dei distretti più attivi e corrispondenti, e novità delle novità che… può avvalorarsi d’idea di un cervello plastico soprattutto in età adolescenziale.

Un quesito teorico altamente dibattuto e argomentato in merito ai meccanismi sottostanti la complessa organizzazione dei circuiti cerebrali è se la costruzione dei circuiti nervosi dipende esclusivamente dall’esecuzione di un programma genetico, o è influenzata dall’interazione fra l’individuo e l’ambiente. Sappiamo da tempo, che il nostro sistema nervoso è costituito da reti neuronali specializzate nel controllo di diverse funzioni indispensabili per la sopravvivenza, quali la rappresentazione sensoriale del mondo esterno, la produzione e il controllo dei comportamenti, la regolazione delle attività vegetative. Per garantire una corretta prestazione del sistema è necessario che le cellule nervose che compongono ogni circuito siano connesse fra di loro in maniera altamente specifica, fino a costituire specifiche mappe neurali che riproducono fedelmente le superfici sensoriali o le sequenze dei comandi motori. È indiscutibile che le informazioni contenute nel patrimonio genetico e perfezionate nel corso dell’evoluzione svolgano un ruolo determinante. Tuttavia, è logico affermare che i circuiti nervosi costruiti esclusivamente sulla base di istruzioni interne potrebbero funzionare in maniera adeguata solo di fronte a condizioni ambientali immutabili, nelle quali ogni singolo oggetto o comportamento fosse sempre codificato da caratteristiche univoche e costanti.

La vita nel nostro ambiente non è così organizzata. Al contrario, la ragione principale del successo della vita sulla terra sta proprio nella capacità degli organismi di adattarsi alla mutevolezza delle condizioni ambientali. Di conseguenza, qualsiasi processo di sviluppo è sempre il risultato dell’interazione tra fattori genetici e segnali territoriali.

Uno dei primi autori a definire chiaramente il concetto, secondo il quale le capacità di apprendimento sono più spiccate negli individui giovani e, addirittura, che alcune funzioni non possono più essere acquisite dopo una certa età, è stato Sigmund Freud, esattamente nel 1935. Il grande psicoanalista mise in evidenza come determinati eventi accaduti durante l’infanzia condizionino in maniera pressoché definitiva la personalità dell’individuo. Le sue conclusioni, raggiunte attraverso un’analisi retrospettiva che parte dagli effetti per risalire alle cause, sono state confermate in diversi modelli sperimentali, nei quali l’interazione fra individuo ed ambiente viene alterata in maniera controllata come dimostrano negli studi condotti da John Dodsworth & Harry Harlow nel 1965 sullo sviluppo del comportamento sociale delle scimmie. Questi autori notarono che i cuccioli di scimmia allevati in totale isolamento durante i primi mesi di vita, una volta reintrodotti nella colonia risultavano del tutto incapaci di intrattenere normali interazioni sociali, quindi stabilire rapporti di gerarchia e prendersi cura dei più piccoli. Le anomalie del comportamento non miglioravano neppure dopo una lunga permanenza nella colonia, indicando come l’esperienza maturata nel corso dei primi mesi di vita avesse lasciato postumi non più modificabili dalle vicende successive. Per contro, scimmie adulte poste in isolamento per lunghi periodi non sviluppavano nessuna alterazione comportamentale.

È chiaro quindi che le regole del comportamento sociale di questi animali mammiferi possono essere acquisite solo durante un preciso periodo dello sviluppo, definito critico, trascorso il quale non possono più essere né apprese né dimenticate. Esiste perciò una predisposizione del sistema nervoso verso stimoli con caratteristiche specifiche, la cui somministrazione durante questo periodo critico induce una rapida e definitiva acquisizione della condotta.

Facciamo un’altra ipotesi per dimostrare che tale conclusione è corretta, prendendo in esame il sistema visivo. Nei soggetti affetti da cataratta la visione è impedita dall’opacizzazione del cristallino, anche se la componente nervosa dell’apparato visivo non è alterata. Questo disturbo colpisce numerose persone anziane, che vengono trattate chirurgicamente e riacquistano una funzione visiva praticamente normale. Esistono però casi di cataratta congenita. In questi individui se il cristallino opacizzato viene rimosso dopo una certa età rimangono difetti visivi permanenti: la capacità di vedere e discriminare gli oggetti è molto ridotta e non migliora neanche dopo un’intensa attività di rieducazione. Anche la funzione visiva deve quindi essere sviluppata nel corso dei primi anni di vita attraverso un processo di apprendimento per il quale l’esperienza sensoriale è determinante. Queste condizioni permettono di trasferire il livello di indagine dall’analisi comportamentale allo studio dei meccanismi cellulari e molecolari che intervengono durante i processi di apprendimento. È così possibile determinare come la struttura e la funzione dei circuiti nervosi siano plasmate dall’esperienza.

Neuro-plasticità e sviluppo

Il programma genetico che sovraintende allo sviluppo del sistema nervoso crea un’infrastruttura di base necessaria per riconoscere e selezionare gli stimoli rilevanti e per predisporre i meccanismi cellulari e molecolari che regolano le modificazioni plastiche. Una volta raggiunte queste condizioni il sistema è pronto a interagire con l’ambiente esterno dando inizio al cosiddetto periodo critico. In questo intervallo di tempo l’esperienza agisce modificando attivamente la struttura e la funzione dei circuiti nervosi in modo da renderli capaci di rappresentare il mondo esterno in maniera congruente o di produrre comportamenti adattativi. Generalmente, questo periodo si chiude quando è stata maturata un’esperienza sufficiente a indurre le necessarie modificazioni plastiche e, perciò, si prolunga se l’esperienza viene a mancare. La sua durata è comunque limitata e, in ogni caso a un certo punto le connessioni formate vengono stabilizzate e le potenzialità plastiche fortemente ridotte. Ogni ulteriore esperienza, per intensa o duratura che sia, non può più modificare sostanzialmente l’assetto raggiunto al termine del periodo critico, in quanto si esauriscono i meccanismi necessari per i processi di plasticità sinaptica.

Seguendo tale premessa, al termine del periodo critico nel quarto strato della corteccia visiva si riduce l’espressione di recettori glutammatergici di tipo NMDA, che sono importanti per i fenomeni di potenziamento a lungo termine. Di conseguenza, tali fenomeni possono essere indotti con maggiore difficoltà.

Inoltre, si verificano una serie di eventi: diminuiscono le capacità di crescita dei processi nervosi e si riduce la sensibilità dei neuroni per le neurotrofine e si assiste ad una riduzione di proteine associate alla crescita assonale, come GAP-43, la cui espressione persiste esclusivamente in aree cerebrali dotate di funzioni plastiche anche nell’adulto, quali l’ippocampo e la corteccia cerebrale.

La fine del periodo critico coincide con la mielinizzazione e la comparsa di proteine inibitrici della crescita assonale presenti nella mielina centrale ed, infine, si riducono i meccanismi che mantengono elevati l’attenzione e lo stato di attivazione nelle aree corticali

Il termine di questo ciclo coincide con la riduzione di neurotrasmettitori, come la noradrenalina o l’acetilcolina, che regolano i livelli di attività corticale.

Tutte queste osservazioni indicano che le condizioni necessarie perché i processi plastici possano avere luogo sono presenti solo durante una precisa finestra temporale, al termine della quale vengono attivamente soppresse dagli elementi stessi del sistema. In altre parole, il ritmo imposto dai programmi genetici di sviluppo fissa sia l’inizio che la fine del periodo critico.

Esiste però anche un’interpretazione alternativa. In effetti, se i fenomeni di plasticità possono essere ricondotti a una serie di processi di competizione, allora potrebbero aver termine quando i circuiti nervosi raggiungono un assetto tale da impedire qualsiasi ulteriore interazione competitiva. Per esempio, una volta che l’esperienza ha indotto la segregazione delle afferenze genicolo-corticali nei rispettivi moduli, non vi è più possibilità di competizione fra gli assoni afferenti semplicemente perché si trovano separati su aree bersaglio distinte. La fine del periodo critico potrebbe quindi essere dovuta non solo alla perdita delle capacità plastiche intrinseche al sistema nervoso, ma anche al fatto che i circuiti neurali hanno raggiunto una configurazione di connessioni stabili, distribuite su territori bersaglio privati, che impedisce di fatto ogni ulteriore interazione fra gli elementi nervosi. Questa ipotesi spiegherebbe il prolungarsi di suddetto periodo quando viene a mancare l’esperienza.

La comprensione di questi meccanismi non è solo importante per approfondire la nostra conoscenza di base sulla neurobiologia dello sviluppo, ma anche per poter intervenire sul sistema nervoso al fine di ottenere un recupero efficace in caso di esperienze comportamentali inadeguate.

In questo ambito, sarebbe davvero importante poter riaprire un periodo critico, ristabilendo le condizioni adatte affinché una corretta esperienza, o un intervento terapeutico simile, possano ripristinare le connessioni anatomiche e le relative interazioni funzionali necessarie per la normale prestazione del sistema nervoso.

La plasticità del cervello durante l’adolescenza

Fino a pochi anni fa, si riteneva che il cervello di un adolescente non fosse sostanzialmente diverso da quello di un adulto e che gli unici cambiamenti di rilievo all’interno della calotta cranica durante questa fase di maturazione dell’individuo fossero dovuti a variazioni dimensionali. Se si considera la minima differenza esistente tra il volume del cervello di un bambino di sei anni e quello di un adulto, il primo circa il 5% più piccolo del secondo, è evidente come fosse legittimo supporre che, a partire dai 12-13 anni, la conformazione di quest’organo potesse essere all’incirca quella definitiva.

Negli esseri umani, durante il periodo adolescenziale, il cervello va incontro a cambiamenti che lo rendono sì sostanzialmente diverso dalla fase infantile ma anche, contrariamente a quanto si pensava, da quello dell’età adulta.

Il cervello è probabilmente, fra tutti, l’organo più difficile da studiare: gli accorgimenti che la natura, nel corso dell’evoluzione, ha escogitato per proteggerlo dalle cadute, dagli attacchi di predatori e da quasi ogni altro tipo di sventurato accidente sono altrettanti schermi per la curiosità degli appassionati.

Per secoli, i ricercatori non hanno potuto fare altro che esaminare i cadaveri, studiare gli animali oppure analizzare le reazioni dei soggetti umani a lesioni cerebrali più o meno gravi. Con l’avvento della tecnica della risonanza magnetica per immagini, la cui scoperta valse a Paul Lauterbur e a sir Peter Mansfield il premio Nobel per la Medicina nel 2003, da una trentina d’anni è diventato possibile, per la prima volta nella storia, indagare l’anatomia e la fisiologia del cervello senza nessun effetto collaterale per i soggetti esaminati. Questo ha consentito di poter finalmente studiare le membra cerebrali di persone sane e vive di ogni fascia di età.

Durante l’adolescenza, a livello cerebrale accade qualcosa di molto particolare che vale sicuramente la pena descrivere più nel dettaglio perché, per quanto fortunatamente tali processi non vadano a contraddire ciò che comunemente si pensa di questa fase della vita, potrebbero aiutare i genitori, la società e anche gli stessi ragazzi a comprendere ciò che succede nel corso di anni così importanti, così belli ma anche così difficili.

Da anni ormai si sa che la maturazione del cervello degli adolescenti non è, come si pensava, legata a un aumento di volume, bensì a una crescita numerica e a una fortificazione delle connessioni neurali fra aree diverse. In aggiunta a ciò, il fatto che non tutti questi cambiamenti avvengano simultaneamente produce effetti piuttosto rilevanti.

Il cervello di un adolescente è caratterizzato da una significativa plasticità, cioè la capacità di rimodellarsi di continuo, naturale meravigliosa predisposizione che rende possibile l’apprendimento. Mentre un tempo si pensava che la plasticità fosse una proprietà specifica dei primi anni di vita del bambino, oggi sappiamo che i circuiti cerebrali si sviluppano già nel feto durante la gravidanza e possono continuare a cambiare nel corso di tutta l’esistenza.

Negli anni Novanta fu messo un forte accento sull’importanza dei primi tre anni di vita per l’apprendimento emotivo e cognitivo; si diffuse l’idea che, trascorso questo periodo, ogni eventuale lacuna non sarebbe più potuta essere colmata – scatenando un’ondata di ansia incontrollabile.

Oggi sappiamo che questo è vero per alcune e poche funzioni, come il linguaggio, la visione e l’udito: esiste davvero, in tali casi, un periodo critico in cui è necessario che i bambini siano sottoposti a determinati stimoli, in assenza dei quali le funzioni stesse non sono in grado di svilupparsi correttamente.

In un famoso esperimento David Hubel e Thorsten Wiesel dimostrarono che un gattino, reso temporaneamente cieco da un occhio per mezzo di una benda, dopo la rimozione della fasciatura non fu più in grado di recuperare la visione binoculare. Ma, come dimostrato, questo è vero soltanto per un numero molto limitato di funzioni; in tutti gli altri casi, proprio grazie alla plasticità cerebrale, l’apprendimento è un processo che va avanti nel corso di tutta l’infanzia, dell’adolescenza e anche dell’età adulta.

Lo sviluppo del cervello, nel corso della nostra intera esistenza, alterna fasi di sovrapproduzione a fasi di eliminazione selettiva, in cui le connessioni neurali non usate o inadeguate vengono distrutte e quelle usate più frequentemente si rafforzano. Durante l’adolescenza, la fase di potatura è particolarmente intensa rispetto a quella di rafforzamento: questo implica che, proprio come suggerisce l’esperienza, le attività svolte in questa fase cruciale influenzeranno ciò che faremo nel resto della nostra vita.

Per azzardare una metafora, si potrebbe affermare che è come se durante la fase di crescita l’evoluzione del cervello fosse paragonabile a quella di una scultura. All’inizio della pubertà, è come un blocco di marmo ricco di potenzialità; a mano a mano che avviene la potatura delle connessioni inutilizzate, ecco che emerge la struttura finale, l’opera d’arte che, più o meno bella, ci porteremo dietro per il resto della nostra vita.

Ma scusate, quanto appena affermato non è forse in contraddizione con la nozione di plasticità? La risposta è no, anzi. Un ragazzino che non mette mai alla prova le proprie abilità matematiche, per esempio, non stimolerà a sufficienza le aree cerebrali deputate a svolgere questo tipo di attività; dato che, come abbiamo scritto, proprio grazie alla plasticità le connessioni neurali non utilizzate vengono distrutte, col passare del tempo diventerà non impossibile, ma certamente sempre più complicato iniziare ad avvicinarsi alla matematica, perché sarà necessario uno sforzo via via maggiore per ripartire letteralmente da zero, andando a ricreare connessioni che un tempo esistevano ma che, non essendo mai state usate, sono state vittima dell’efficiente sistema di pulizia escogitato dal cervello.

La plasticità della mente durante il periodo centrale della crescita ha ancora altre caratteristiche abbastanza sbalorditive. Fondamentale è mettere in rilievo un equilibrio nello sviluppo delle due aree del cervello in modo che possano instaurare fin da subito una buona relazione comunicativa: quella responsabile delle emozioni e quella deputata al loro controllo.

A partire dalla nascita nell’encefalo umano si verificano continue e profonde modificazioni ormonali e fisiologiche. Con un peso di circa 1.35 chilogrammi, rappresenta uno degli organi più sviluppati del nostro corpo. Deriva da tre vescicole primordiali, che a loro volta si suddividono in strutture con caratteristiche distintive e funzioni specialistiche. Il mesencefalo e il romboencefalo formano il tronco cerebrale, una struttura che si trova tra il midollo spinale e il prosencefalo. Il mesencefalo riceve ed integra informazioni sensoriali di diverso tipo. Il romboencefalo è costituito a sua volta da tre parti, il bulbo, il ponte e il cervelletto, che controllano rispettivamente l’omeostasi, i diversi impulsi nervosi e la coordinazione motoria. I processi nervosi più complessi hanno sede nel prosencefalo, dove originano i processi integrativi più elevati come la formazione degli schemi mentali, la memoria e l’apprendimento. Il prosencefalo comprende due strutture: il diencefalo e il telencefalo. Il diencefalo è formato da due centri di integrazione delle informazioni: il talamo e l’ipotalamo. Il telencefalo è costituito da due emisferi cerebrali. La porzione dorsale, la corteccia, è tradizionalmente chiamata cervello.

La superficie della ragione umana è suddivisa in quattro lobi, frontale, parietale, temporale, occipitale, ognuno dei quali è caratterizzato da specifiche funzioni.

La maturazione encefalica di un adolescente di 14-15 anni è parzialmente sviluppato e fortemente legato alle emozioni.

Il sistema limbico che media l’emotività e gli impulsi si sviluppa infatti precocemente, ed è situato nelle strutture profonde del cervello.

La corteccia prefrontale e frontale, che sono le parti legate alla razionalità, alla cognizione, alle funzioni sociali e al linguaggio, maturano più tardi, attorno ai 25 anni. Sono le regioni che bloccano le decisioni prese d’impulso sotto la spinta delle emozioni.

La prevalenza di comportamenti a rischio durante l’adolescenza è quindi facilmente spiegabile dall’immaturità di alcune regioni cerebrali rispetto ad altre, in particolare dallo scarso controllo delle regioni corticali frontali sugli impulsi primari. Le diverse aree corticali raggiungono il loro picco di densità di materia grigia a differenti età: nel lobo frontale, ad esempio, il picco può giungere anche nella terza decade di vita, tanto che la corteccia prefrontale dorso laterale è l’ultima area corticale a raggiungere lo spessore definitivo. Durante gli anni Novanta del secolo scorso, il National Institute of Mental Health, ha intrapreso degli studi sul cervello indagando la maturità cerebrale, cercando di comprendere che cosa fosse esattamente e come funzionasse. Attorno ai vent’anni è confermato il fatto che questa regione raggiunga la piena maturazione cerebrale.

L’evoluzione cerebrale adolescenziale

Mielinizzazione. La corteccia prefrontale dorso laterale è l’ultima parte della corteccia a maturare in quattro tappe evolutive, dai cinque ai vent’anni di età.

Lo sviluppo cerebrale non si conclude comunque con l’adolescenza ma continua, anche se con modalità meno impetuose. Studi longitudinali di neuroimaging strutturale che hanno seguito lo sviluppo cerebrale di centinaia di adolescenti, dimostrano come esista un incremento lineare, grazie a una continua mielinizzazione degli assoni. Tutti i nervi nel sistema nervoso periferico e le fibre nervose nel sistema nervoso centrale sono ricoperte da una guaina mielinica. La mielina è una sostanza lipidica che isola elettricamente l’assone del neurone e ne consente la massima velocità nella conduzione dell’impulso nervoso.

Sinaptogenesi. All’inizio dell’adolescenza si ha un nuovo periodo di sinaptogenesi, cioè di crescita di nuove sinapsi, successivo a quello dei primi anni di vita. In questo periodo di crescita, infatti, si assiste a un progressivo aumento della sostanza grigia, che raggiunge un picco di densità, oltre il quale si verifica un momento di stasi.

La sinaptogenesi, quindi, è un processo di formazione e maturazione delle sinapsi neuronali necessario all’alta specificità delle connessioni cellulari.

Pruning sinaptico. In un momento specifico per ogni area corticale, inizia il processo di pruning sinaptico, cioè lo sfoltimento delle sinapsi scarsamente utilizzate. Questi meccanismi portano alla ridefinizione dei circuiti cerebrali che acquistano maggiore efficienza funzionale.

Use it or loose it. La regola usalo o perdilo, aiuta a comprendere con maggior precisione il modello del drive e del controller e a collocarlo nelle varie fasi di vita. Questa regola prevede che le connessioni neuronali maggiormente utilizzate vengono strutturate e rafforzate mentre quelle poco utilizzate tendono a strutturarsi di meno.

In altre parole, durante il periodo di maturazione cerebrale è importante che dall’ambiente arrivino continuamente stimoli che mantengano un equilibrio tra drive e controller. Pertanto, il sistema educativo in cui il soggetto è inserito deve favorire il pieno sviluppo delle capacità di controllo, cioè fornire stimoli che inibiscano comportamenti volti al solo soddisfacimento degli impulsi, cioè dei drive, per una piena strutturazione del controller a livello della corteccia prefrontale.

A sostegno di ciò, alcuni studi condotti agli inizi del 2000 hanno indagato l’attivazione delle aree cerebrali in soggetti adulti e in soggetti adolescenti. I due gruppi sono stati valutati per lo svolgimento del medesimo compito mostrando risultati diversi attribuibili al diverso funzionamento cerebrale di adulti e adolescenti. Nello specifico, gli adolescenti attivano meno la corteccia orbitofrontale, la corteccia frontale ventrolaterale, la corteccia prefrontale dorsolaterale e la corteccia cingolata.

L’adolescenza quindi è caratterizzata dalla sinaptogenesi che consiste in un aumento smisurato di sinapsi. Un fenomeno simile accade unicamente e usualmente nei primi anni di vita. La sostanza grigia dunque aumenta di densità e raggiunge il plateau. Questo fenomeno viene denominato U rovesciata in quanto tale accrescimento della sostanza grigia può essere rappresentato come una collina rovesciata.

La massima densità neuronale della sostanza grigia nella corteccia frontale avviene attorno ai 12-13 anni di vita. Successivamente, per il fenomeno del pruning sinaptico, c’è una riduzione del volume totale corticale dato dall’eliminazione delle connessioni neuronali meno usate, e dal consolidamento dei network più fortemente utilizzati.

Per riassumere quanto detto finora e tenendo conto che le conoscenze nell’ambito delle neuroscienze, e quindi anche circa la maturazione cerebrale, è comunque possibile, ad oggi, fissare quattro elementi di riferimento che caratterizzano lo sviluppo del cervello:

-il tempo
-gli eventi
-le regole
-la direzione
La corteccia cerebrale raggiunge la sua piena maturità dopo il quarto lustro di vita e prima del quinto. Nel periodo dell’adolescenza il cervello si concentra nella produzione di un altissimo numero di sinapsi, successivamente alla quale procede al rispettivo sfoltimento, vale a dire pruning.

I network neuronali si strutturano in funzione del loro uso, cioè a seconda del fatto che essi vengano o meno utilizzati e delle frequenze con cui vengono impiegati. Quelli che non vengono utilizzati, o vengono utilizzati meno, sono automaticamente eliminati. Quindi ecco che la sinaptogenesi e il pruning rispettano la logica precisa legata alla regola del use it or loose it.

L’ultimo elemento, non meno decisivo degli altri, che caratterizza la maturazione cerebrale è la direzione.

Il cervello umano contiene tre diversi settori cerebrali interni che sono il tronco encefalico, il mesencefalo/diencefalo e gli emisferi cerebrali con la neocorteccia. La corteccia è certamente la struttura più recente in termini di evoluzione; a seguire si è strutturato il mesencefalo/diencefalo e, infine, la struttura più antica è il tronco encefalico. La maturazione avviene prima nelle parti di corteccia più antiche e poi in quelle più recenti, in modo che alla nascita siano assicurate le funzioni vitali mentre le funzioni più complesse hanno il tempo di strutturarsi in maniera completa anche dopo la nascita. La neocorteccia, infine, matura in una direzione rostro caudale, cioè da dietro in avanti.

La Dipendenza adolescenziale e Conseguenze Comportamentali

Dal mondo scientifico è ormai da tempo acquisito che l’addiction è una malattia cronica del cervello e questo emerge da oltre 25 anni di ricerche che, attraverso studi provenienti da diverse aree della conoscenza, hanno potuto definire molti aspetti di questa complessa patologia.

Affermare questa semplice evidenza potrebbe sembrare ovvio, ma in realtà dietro all’accettazione di questa affermazione si trova un nuovo modo, non sempre condiviso, di leggere, interpretare e approcciare il fenomeno ed è la chiave di partenza per una lettura basata sulla corretta interpretazione dei meccanismi fisiopatologici correlati alla dipendenza.

Sicuramente, un grande contributo nel definire meglio questi meccanismi è stato dato proprio dalle neuroscienze e negli ultimi anni soprattutto dalle tecniche di neuroimaging, che oggi permettono di evidenziare e rappresentare non solo le strutture, ma anche il funzionamento e le attività delle aree e delle connessioni cerebrali variamente coinvolte nei processi disfunzionali che portano alla dipendenza.

In tale contesto hanno potuto trovare conferme precedenti studi sviluppati in campo neurobiologico e relativi ai recettori e ai sistemi dopaminergici fortemente coinvolti nello sviluppo e mantenimento dell’addiction.

Già da tempo, studi strutturali hanno evidenziato differenze nei lobi prefrontali dei poli-assuntori rispetto ai gruppi di controllo, non assuntori, evidenziando e documentando lesioni cerebrali correlate a dipendenze patologiche.

Un grande e ulteriore apporto è giunto successivamente con l’utilizzo di tecniche in grado di cogliere non solo le caratteristiche strutturali ma anche quelle funzionali dell’attività cerebrale, quali la risonanza magnetica funzionale (RMI) e la tomografia a emissione di positroni (PET), che hanno permesso di osservare differenziati aspetti collegati al funzionamento e alle attività cerebrali sotto l’azione di sostanze stupefacenti, oltre che a cambiamenti strutturali di particolari aree del cervello in seguito all’uso ripetuto di sostanze. Importanti osservazioni a proposito sono state fatte già da alcuni anni in merito all’attività di strutture fondamentali, quali il nucleo accumbens e altre aree cerebrali coinvolte nei meccanismi di craving, aprendo nuove prospettive di conoscenza per la comprensione del meccanismo che porta alla conservazione dello stato di addiction. Oggi infatti, il craving e il suo correlato comportamentale di ricerca attiva della sostanza, può essere visualizzato attraverso una mappatura delle aree cerebrali che si attivano in relazioni a stimoli trigger in grado di elicitare tale condizione.

Anche se questa può sembrare una semplice osservazione strumentale di fenomeni cerebrali, essa assume una forte importanza da un punto di vista clinico nel momento in cui si riescono a differenziare aree e attività a più alto rischio o stimoli più o meno evocanti e attivanti attraverso lo studio di paradigmi differenziati.

Anche se questi esami ad oggi non sono alla portata comune dei dipartimenti delle dipendenze non è da escludere che nell’arco di qualche anno tale disponibilità, con i progressi tecnologici e la maggiore diffusione di questi strumenti, possa diventare molto più alta.

Varie osservazioni hanno in seguito permesso di comprendere sempre meglio il ruolo di potenziale controller di varie aree della corteccia prefrontale in seguito all’attivazione del craving o nel processo decisionale nel controllo cognitivo e comportamentale. L’area prefrontale è la sede elettiva delle funzioni razionali e del controllo del comportamento.

Queste ulteriori osservazioni e il loro successivo approfondimento ci permetteranno di comprendere ancora meglio quali siano i meccanismi efficaci e la loro maturazione, che portano la maggior parte degli individui a sviluppare un comportamento naturale di estinzione dell’addiction con il progredire dell’età.

I dati epidemiologici generali dimostrano che la dipendenza da videogioco si auto estingue in modo naturale nella maggior parte dei casi nell’arco di 6-8 anni, indipendentemente dai trattamenti eseguiti. È presumibile pensare, e forse anche sperare, che tale comportamento risulti in relazione con modificazioni cerebrali che comportino un minor grado di attività e quindi di effetto delle aree del craving e una maggior influenza di controllo delle aree prefrontali.

Contemporaneamente, le osservazioni strutturali e funzionali con evidenze in ambito genetico dimostrano la probabilità di correlare osservazioni morfo-funzionali e genetiche al fine di interpretare e comprendere la maggiore vulnerabilità alle droghe di alcuni soggetti.

In particolare, la risonanza magnetica funzionale ha consentito di dimostrare la relazione esistente tra craving per il gioco online e lo stress entrando quindi in argomenti e campi in cui, fino a qualche anno fa, non si sarebbe mai pensato che la neuroradiologia potesse dare contributi così importanti. La correlazione stress e vulnerabilità all’addiction è nota da tempo, come è noto da tempo che gli individui presentano risposte diversificate allo stress e che queste possono essere dei predittori interessanti proprio per la vulnerabilità all’addiction.

Altre tecniche basate sulla medicina nucleare, come il PET e lo SPECT, hanno permesso di acquistare ulteriori evidenze sui sistemi recettoriali cellulari e sul metabolismo dei neurotrasmettitori consegnando ai ricercatori delle precise mappature attraverso l’utilizzo di radio-tracciati che permettono la misurazione del metabolismo cerebrale del glucosio.

In questo modo si è potuto anche comprendere meglio il ruolo della dopamina nell’euforia conseguente all’uso di sostanze e, contemporaneamente, come e quanto alcuni stimolanti, per esempio le metanfetamine, riducano l’attività cellulare nelle aree del cervello deputate alla capacità di giudizio, quale la corteccia orbitofrontale, importante nei processi decisionali strategici.

Cambia la mente e cambierai il cervello era il titolo di un interessante articolo di Vanessa Paquette del 2003, che analizzava e dimostrava gli effetti e le modificazioni strutturali e funzionali conseguenti al trattamento della fobia specifica per i ragni basata su psicoterapia cognitivo-comportamentale.

In questo lavoro Paquette ha dimostrato la capacità della psicoterapia cognitivo-comportamentale di creare modificazioni dell’attività e della struttura neuronale, dimostrando la capacità di indurre modificazioni fisiche del sistema nervoso con conseguenti e importanti modificazioni psichiche. Questo fenomeno di rimodellamento delle strutture cerebrali viene definito neuro-plasticità e potrebbe svolgere un importantissimo ruolo anche nel superamento delle dipendenze.

Ma quali sarebbero le attivazioni cerebrali in caso di comportamenti violenti o compassionevoli e quali le aree coinvolte nei processi decisionali? La conoscenza quasi topografica di questi aspetti e meccanismi di decisione potrebbero avere grande utilità nella prevenzione e nella clinica delle dipendenze.

Come è possibile intuire, lo studio e l’approfondimento di queste tematiche da parte degli operatori dei dipartimenti delle dipendenze consentirebbe loro di acquisire informazioni importantissime sui meccanismi fisiopatologici della dipendenza cosa che necessariamente comporterà una profonda trasformazione nell’attuale modello concettuale di riferimento alla base dei percorsi diagnostici e terapeutici.

Quello che vorremmo venisse colto è proprio questo aspetto di come un approfondimento e un orientamento verso le neuroscienze anche nel campo dell’addiction potrebbe far cambiare profondamente e sicuramente in meglio anche la nostra operatività quotidiana e il rapporto con gli adolescenti.

Utilità e applicabilità

Comprendere i meccanismi psico-neurobiologici che stanno alla base di determinati comportamenti di assunzione è il primo passo necessario per un loro corretto inquadramento e per il progetto di analisi.

La consapevolezza di che cosa succede durante lo scatenamento di una dipendenza e di come il nostro cervello reagisce e quali funzioni usa per controllarlo o assecondarlo, non può che far aumentare quel grado di autocoscienza nel giovane che serve per cominciare a risolvere il problema partendo da basi di oggettività scientifica e non di sola percezione soggettiva.

Un altro grande vantaggio di questo approccio innovativo è la possibilità di monitorare meglio anche a livello strutturale e funzionale cerebrale, e non solo comportamentale, l’evoluzione e i risultati dei trattamenti.

Tutto questo potrebbe rappresentare semplicemente un sogno per alcuni ma noi preferiamo viverlo come una speranza per la nuova generazione, un’aspettativa sostenuta da innumerevoli contributi scientifici che sempre più ci vengono offerti dai ricercatori di tutto il mondo.

È necessario inoltre, fare riferimento anche a una nuova prospettiva di natura neuropsicologica, quella di Marcel Yücel del 2007, per capire e interpretare ancora meglio la dipendenza e gli interventi possibili educativi e sociali.

I disturbi psichici andrebbero allora analizzati in relazione ai correlati neurali, funzionali e strutturali rilevabili con le tecniche neuroradiologiche classiche per avere una più solida base di evidenza. Risulta interessante anche la tendenza segnalata da Charlotte A. Böttiger sempre nell’anno 2007, a scegliere gratificazioni minori, ma immediate invece di gratificazioni maggiori e posticipate nel tempo, caratteristica peculiare di dipendenze generali. Fino a oggi poco si sapeva dei processi neurobiologici alla base di questo comportamento. Lo studio coordinato da Charlotte A. Böttiger, ricercatrice all’Ernest Gallo Clinic & Research Center University of California, San Francisco, pubblicato recentemente sul Journal of Neuroscience, ha chiarito il funzionamento neurobiologico delle regioni cerebrali attivate dai processi di scelta fra gratificazioni immediate o posticipate.

Lo studio è stato condotto su un gruppo di nove dipendenti patologici in trattamento e dieci controlli senza storia di dipendenza, impegnati in un compito di decisione e sottoposti a scan di risonanza magnetica funzionale con tecnica BOLD (bloodoxygen-level dependent).

I ricercatori hanno dimostrato che i siti di attivazione in caso di tendenza alla gratificazione immediata risultano essere la corteccia parietale posteriore (PPC), la corteccia prefrontale dorsale (dPFC) e le regioni del giro paraippocampale rostrale; mentre in caso di gratificazioni più consistenti ma fruibili dopo un’attesa più o meno prolungata la regione corticale maggiormente attivata risulta essere quella orbitofrontale. Lo studio ha anche messo in luce come il genotipo al polimorfismo Val158Met del gene della catecol-O-metiltransferasi, che regola i livelli della dopamina nel cervello, risulti predittivo sia del comportamento di scelta impulsiva sia dei livelli di attività nella dPFC e e nella PPC durante la presa di decisioni/decision making.

Le persone non sarebbero dunque tanto schiave del piacere, quanto carenti cognitivamente nella presa di decisioni.

La ricostruzione dei meccanismi eziopatogenetici di partenza e la loro rappresentazione mediante tecniche di neuroimaging diventa, quindi, non solo un ampliamento delle basi di conoscenza fine a sé stessa, ma sta fortemente condizionando l’interpretazione di questi fenomeni, delle ragioni di tali comportamenti e, soprattutto, delle reali possibilità e delle migliori modalità di intervento, valutate anche alla luce di queste nuove modalità di osservazione e rappresentazione dell’addiction. Tutto questo senza mai dimenticare un fattore importantissimo di interpretazione: l’individuo vive all’interno di un ambiente, di una società, con cui interagisce costantemente e da cui riceve stimoli, condizionamenti, opportunità e deterrenti che ne condizionano costantemente sia i comportamenti che le scelte.

La vulnerabilità

In ambito clinico-psicologico il termine vulnerabilità si riallaccia a una tradizione antica che ha permesso di identificare dei fattori di rischio la cui presenza comporta il pericolo di sviluppare una patologia.

La strutturazione del disturbo è l’esito di un lungo processo nell’ambito del quale i fattori di rischio sono maggiori dei fattori protettivi. Questo tipo di approccio portato nella dipendenza porta all’identificazione di fattori di incertezza la cui presenza comporta un ulteriore rischio di seguire certe abitudini.

La possibilità di produrre comportamenti protettivi o a repentaglio da parte del soggetto, non è mai determinata una volta per tutte ma può oscillare tra il pericolo e la protezione a seconda dell’influenza di vari fattori che possono risentire di situazioni contingenti non prevedibili in grado di condizionare dinamicamente tutto lo scenario comportamentale.

Le situazioni contingenti possono essere di vario tipo e di varia forza e dipendere da situazioni interne all’individuo, come stati d’ansia, depressione, aggressività, o esterne, come stimoli ambientali sollecitanti e attraenti, condizioni di alta pressione sociale, oppure ancora miste, cioè la combinazione di situazioni interne all’individuo e di dinamiche esterne.

Il comportamento di assunzione che porta alla dipendenza è sostenuto dunque da uno stato che viene definito di vulnerabilità e che a sua volta viene condizionato da vari fattori in ambito biologico, socio-ambientale e psichico. La maggiore o minore vulnerabilità all’uso e alla dipendenza da videogioco sembra avere radici nelle differenze individuali fra i minorenni, che dipendono tanto da variabili genetiche quanto da variabili ambientali, particolarmente importanti nel periodo della maturazione cerebrale, chiamata in psicologia età evolutiva.

Il cervello termina la sua maturazione dopo i vent’anni anni; diventa quindi di importanza strategica evitare che questo sia esposto prima a sostanze di piacere dipendente.

Gli individui con storia di dipendenza patologica mostrano gravi deficit neuropsicologici a livello di memoria, controllo esecutivo e processi decisionali, oltre ad anomalie neurobiologiche che interessano in particolare i circuiti frontotemporali e i gangli della base.

La dipendenza è caratterizzata da un’evidente perdita di autonomia e di controllo sul proprio comportamento: l’uso costante oltre misura di apparecchiature multimediali da parte di soggetti dipendenti nonostante un’apparente consapevolezza delle conseguenze negative a questo associate, esprime chiaramente deficit del controllo inibitorio, della capacità di prendere decisioni e di regolare gli affetti.

Il comportamento patologico, i tratti di personalità e i disturbi mentali comuni per chi si intrattiene con i videogiochi sono associati a deficit neuropsicologici simili.

Il tema della maturità cerebrale sta riscuotendo un notevole interesse sia nell’ambito scientifico che in quello psicologico ed educativo. Ci si rende conto, che le informazioni che provengono dalle neuroscienze possono avere forti ricadute pratiche e influenzare profondamente il vivere quotidiano.

E’ ormai assodato che il cervello di un adolescente non sia del tutto maturo, cioè non abbia ancora terminato completamente il proprio sviluppo, e come la sostanza bianca cerebrale e la sostanza grigia subiscano cambiamenti strutturali anche dopo la pubertà.

Oltre alle vulnerabilità genetiche, vi sono fattori sociali che rendono alcuni individui maggiormente esposti alla possibilità di sviluppare una dipendenza rispetto ad altri.

Questi fattori includono: il background socio-economico, l’esposizione all’uso di dipendenze virtuali del soggetto o da parte di persone dello stesso grado e un’esposizione precoce ai media, scarse prestazioni scolastiche e disturbi mentali come il disturbo di condotta, l’ansia e disturbi depressivi che si sviluppano durante l’adolescenza. Sia le suscettibilità genetiche che quelle ambientali allo sviluppo della dipendenza sono mediate da cambiamenti neuropsicologici nel cervello di chi fa uso eccessivo dei multimedia.

Si pensa che i geni coinvolti nella dipendenza producano cambiamenti nella struttura o nel funzionamento di circuiti neurali specifici durante lo sviluppo che colpiscono la capacità di reazione di un individuo agli effetti dell’uso dei videogiochi. Gli stressor ambientali e un’esposizione precoce ai videogiochi, in particolar modo durante il primo sviluppo, possono sortire anche effetti neuropsicologici significativi che lasciano i minorenni vulnerabili all’abuso e alla dipendenza da essi.

Top-down e bottom-up

L’essere umano cresce seguendo due regole principali: quella del Top-down e quella del Bottom- up. Ciò significa che l’individuo si sviluppa secondo l’interazione tra potenzialità geneticamente prestabilite e stimoli provenienti dall’ambiente.

Per meccanismo di Top-down s’intende in genere il drive interno genetico, mentre per meccanismo di Bottom-up s’intende la stimolazione proveniente dall’ambiente esterno.

È necessario considerare questa interazione per comprendere a pieno i fenomeni che avvengono durante la crescita in un adolescente. Il rapporto ormone- cervello incentiva il bisogno di emozioni e sensazioni forti, mentre le aree cerebrali preposte alla capacità di giudizio sono ancora immature: per questo gli adolescenti hanno più difficoltà a prendere decisioni di un certo livello e a comprendere le conseguenze delle proprie azioni. Questo li porta ad essere più vulnerabili alle situazioni a rischio, quali, ad esempio, consumare sostanze stupefacenti o assumere comportamenti di tipo trasgressivo.

A partire dal concepimento, il viaggio dell’embrione per diventare un organismo maturo è straordinariamente complesso. La crescita dell’uovo fecondato, per svolgersi regolarmente e nei tempi previsti, necessita di un ambiente che fornisca stimoli adeguati a un sano sviluppo cellulare. Se si considerano le cellule cerebrali, queste sono formate da circa cento miliardi di neuroni e da un numero almeno pari di cellule gliali. I neuroni ne comprendono diversi tipi che formano tra loro una rete vastissima di interazioni, circa cento trilioni di connessioni. Questi numeri suggeriscono quanto siano articolate e complesse la crescita e lo sviluppo del cervello.

La vita è un processo straordinario, basti pensare che un essere umano si sviluppa a partire da una cellula uovo del diametro di 100-150 μm fecondata da uno spermatozoo lungo solo 60 μm. Dalla fusione, si forma un’unica cellula, lo zigote, che porta dentro di sé le informazioni genetiche necessarie alla crescita di un nuovo individuo. I cromosomi contengono il programma genetico completo per sviluppare l’embrione durante la vita prenatale.

Il sistema nervoso si sviluppa a partire dalla prima settimana dopo il concepimento, da uno strato cellulare chiamato ectoderma. Alla fine delle prime otto settimane, l’embrione umano presenta abbozzi di quasi tutti gli organi del corpo, ma il cervello è l’organo che cresce più rapidamente e rappresenta da solo metà della grandezza totale dell’embrione.

Il peso del cervello varia nei diversi stadi della vita e può quindi essere considerato un indicatore dei molti processi che portano alla piena maturazione cerebrale. La forma e le connessioni cerebrali dipendono principalmente dalle disposizioni genetiche che dirigono la produzione di ogni proteina cellulare. I geni rappresentano quindi fattori intrinseci, che originano nel cervello in via di sviluppo. L’espansione cerebrale è influenzata anche da fattori estrinseci.

Per l’essere umano, che dipende dal nutrimento della madre per svilupparsi, un fattore estrinseco importante è il nutrimento stesso trasmesso al feto, ossia i nutrienti necessari affinché le disposizioni genetiche possano costituirsi. In mancanza di nutrimento, o in caso di alterazioni nella distribuzione dei nutrienti, si possono verificare gravi effetti sullo sviluppo, specie quello encefalico. Un ulteriore fattore estrinseco cellulare è rappresentato dai fattori neurotrofici, importanti meccanismi in grado di regolare la morte o la crescita delle cellule.

Inoltre, anche l’esperienza, cioè l’insieme delle conoscenze acquisite attraverso gli stimoli forniti dall’ambiente esterno, porta allo sviluppo di nuove connessioni cerebrali e rafforza quelle già esistenti. Tale fenomeno sta alla base dell’apprendimento e influisce sulla maturazione della ragione e del talento.

L’uomo, come tutti gli esseri animali, ha la capacità di perseguire uno o più obiettivi organizzando comportamenti complessi che gli permettano di conseguirli. Se avere un patrimonio genetico sano è la condizione indubbiamente migliore per avere uno sviluppo adattivo, cioè che consenta l’integrazione della persona sia da un punto di vista sociale che ambientale, la genetica non basta. Una corretta crescita necessita anche di fasi temporalmente organizzate, in un contesto ambientale adeguato, secondo disposizioni genetiche ben definite. Questo tipo di organizzazione vale per la maggior parte delle funzioni vitali umane.

La capacità dell’uomo di perseguire degli obiettivi si fonda su meccanismi che potremmo indicare con il termine di drive e controller. Per drive s’intende la pulsione che può riguardare la sete, la fame, il sonno, il sesso. Per controller s’intende, invece, la funzione che ci permette di decidere se, dove, quando e come realizzare quel bisogno. Quest’ultimo ha la funzione di filtrare i nostri bisogni secondo le variabili del luogo, del tempo e delle modalità che ognuno seleziona diversamente. Le aree del drive sono quelle sottocorticali, rappresentate dal sistema limbico, mentre le aree del controller coinvolgono la corteccia frontale e la corteccia cingolata anteriore.

I disturbi del comportamento che si manifestano negli adolescenti possono derivare da alterazioni del normale sviluppo cerebrale; in particolare, tale alterazione si manifesta con un significativo ritardo della maturazione della corteccia rispetto ai ragazzi sani.

Le difficoltà cognitive e comportamentali spesso riscontrate nei bambini cresciuti in uno stato di dipendenza, sono legate ad alterazioni strutturali e funzionali del cervello posto in condizioni di deprivazione sociale ed emozionale.

Durante l’adolescenza sono ancora precari i fasci associativi, i fasci proiettivi e le connessioni interemisferiche che mantengono il controllo esecutivo top-down del comportamento. La maturazione procede in parallelo con i cambiamenti dallo stadio pre-puberale allo stadio puberale, suggerendo l’influenza dei cambiamenti ormonali sullo sviluppo della sostanza bianca. Dopo questa fase evolutiva, i fasci associativi e proiettivi raggiungono la piena evoluzione, intesa come quasi-completamento.

Questa fase dello sviluppo corrisponde alla completa realizzazione delle funzioni esecutive da parte della corteccia frontale, che da un punto di vista comportamentale si manifesta con la capacità da parte dell’individuo di pianificare le proprie azioni e le conseguenze future, mettendo in atto una serie di strategie cognitive in grado di gestire e controllare gli impulsi.

La gioventù è un periodo evolutivo caratterizzato da decisioni e azioni subottimali che danno origine a una maggiore incidenza di lesioni e violenze involontarie, abuso di alcol e droga, maternità indesiderate e malattie a trasmissione sessuale.

Le tradizionali spiegazioni neurobiologiche e cognitive del comportamento adolescenziale non sono state in grado di fornire alcuna giustificazione per i cambiamenti non lineari del comportamento, rispetto all’infanzia e all’età adulta.

La presente analisi intende fornire una concettualizzazione biologicamente plausibile dei meccanismi neurali sottostanti i suddetti cambiamenti non lineari del comportamento, come una reattività accentuata agli incentivi mentre il controllo degli impulsi è ancora relativamente immaturo durante tale periodo.

Esiste comunque una base biologica per questo punto di vista, suggerendo uno sviluppo differenziale dei sistemi limbici di ricompensa rispetto ai sistemi di controllo top-down durante l’adolescenza rispetto all’infanzia e all’età adulta.

Questo pattern evolutivo potrebbe essere acuito negli adolescenti con una predisposizione all’assunzione dei rischi, incrementando così il rischio di esiti insoddisfacenti.

Ogni anno negli Stati Uniti si verificano più di 13.000 decessi di adolescenti. La maggior parte di questi sono la conseguenza di comportamenti azzardati e pericolosi, come incidenti d’auto, lesioni involontarie, omicidio e suicidio. Questi giovani mettono in atto situazioni che aumentano le loro probabilità di decesso o infortunio guidando veicoli dopo avere consumato alcolici o senza le apposite cinture di sicurezza, maneggiando armi, utilizzando sostanze illegali e facendo sesso non protetto con conseguenti maternità indesiderate e malattie a trasmissione sessuale.

Diverse ipotesi cognitive e neurobiologiche sono state avanzate al fine di spiegare perché fanno queste scelte subottimali.

Durante gli anni dell’adolescenza, lo sviluppo cognitivo è associato a un’efficienza progressivamente maggiore delle capacità di controllo, che viene descritta come dipendente dalla maturazione della corteccia prefrontale, come dimostrato dall’incremento dell’attività all’interno delle regioni focali prefrontali e dalla ridotta attività nelle regioni irrilevanti del cervello.

Questo pattern generale di un migliore controllo cognitivo con la maturazione della corteccia prefrontale, suggerisce un incremento lineare nello sviluppo dall’infanzia all’età adulta. Eppure le scelte e le azioni subottimali osservate durante l’adolescenza rappresentano un cambiamento non lineare del comportamento distinto dall’infanzia e dall’età adulta, per quanto riguarda il comportamento adolescenziale e la mortalità.

Se il controllo cognitivo e una corteccia prefrontale immatura fossero in effetti la base per il comportamento di scelta subottimale, in tal caso i bambini dovrebbero essere notevolmente simili agli adolescenti o anche peggio, dato il minor sviluppo della corteccia prefrontale e delle capacità cognitive. Pertanto, la sola funzione immatura della corteccia prefrontale non basta a spiegare il comportamento adolescenziale. La determinazione di traiettorie evolutive per i processi cognitivi e neurali è essenziale al fine di caratterizzare tali passaggi e limitare le interpretazioni sui cambiamenti di comportamento durante tale periodo.

A livello cognitivo o comportamentale, gli adolescenti vengono descritti come impulsivi, senza controllo cognitivo e assuntori del rischio, i due concetti utilizzati come sinonimi e senza alcun riguardo per le traiettorie evolutive distinte di ciascun tipo di comportamento.

Il sistema limbico si sviluppa prima delle regioni di controllo prefrontali, quindi l’individuo viene influenzato maggiormente dal sistema limbico funzionalmente maturo durante l’adolescenza, in confronto ai bambini, nei quali entrambi i sistemi, limbico e prefrontale, sono entrambi in fase di sviluppo; e in confronto agli adulti, che presentano sistemi completamente maturi.

Tale prospettiva fornisce una base per i cambiamenti non lineari di comportamento durante lo sviluppo, a causa di una precoce maturazione del sistema limbico rispetto alle aree prefrontali di controllo top-down meno mature. Con lo sviluppo e l’esperienza, la connettività funzionale tra queste regioni fornisce un meccanismo per il controllo top-down di tali regioni.

Inoltre, si concilia la contraddizione tra comportamento a rischio durante l’adolescenza e l’astuta osservazione che gli adolescenti sono in grado di ragionare e comprendere i rischi dei comportamenti da loro attuati. In situazioni emotivamente salienti, il sistema limbico avrà la meglio sui sistemi di controllo a causa della sua maturità rispetto alle aree prefrontali. Questo spiegherebbe in parte le ipotesi sul perché il cervello potrebbe svilupparsi in tale modo e perché alcuni giovincelli sono a maggior rischio di decisioni subottimali che portano a esiti più insoddisfacenti a lungo termine.

Un fondamento dello sviluppo cognitivo è la capacità di sopprimere pensieri e azioni inappropriati a favore di pensieri e azioni orientati all’obiettivo, specialmente in presenza di incentivi attraenti. Lo sviluppo cognitivo è dovuto a una maggiore rapidità ed efficienza di elaborazione e non ad un aumento della capacità mentale, con l’aggiunta del concetto di processi inibitori nel loro resoconto dello sviluppo cognitivo.

La cognizione immatura è caratterizzata dalla vulnerabilità all’interferenza da parte di stimoli in competizione che devono essere soppressi, pertanto, il comportamento orientato all’obiettivo richiede il controllo degli impulsi o il ritardo della gratificazione al fine di ottimizzare gli esiti, e tale capacità sembrerebbe maturare durante l’infanzia e l’adolescenza.

Il comportamento adolescenziale è stato descritto come impulsivo e rischioso, i due termini utilizzati quasi come sinonimi, sebbene questi due concetti siano basati su due differenti processi cognitivi e neurali, suggerendo concetti diversi con traiettorie evolutive diverse.

L’impulsività diminuisce con l’età durante l’infanzia e l’adolescenza ed è associata allo sviluppo protratto della corteccia prefrontale, anche se vi sono differenze nella misura in cui un dato individuo è impulsivo o meno, indipendentemente dall’età. In contrasto con il controllo cognitivo/impulso, l’assunzione del rischio sembrerebbe aumentare durante l’adolescenza rispetto all’infanzia e all’età adulta, ed è associata ai sistemi subcorticali noti per essere coinvolti nella valutazione delle ricompense. L’aumento dell’attivazione subcorticale si percepisce nel momento in cui si fanno scelte rischiose che è maggiore in questa fascia di sviluppo

Tali conclusioni suggeriscono traiettorie diverse per comportamenti basati sulla ricompensa o sull’incentivo, con uno sviluppo più precoce di questi sistemi rispetto ai meccanismi di controllo che mostrano un corso evolutivo protratto e lineare, in termini di scarto delle scelte e di azioni inappropriate a favore di quelle orientate all’obiettivo del gioco.

Perché il cervello sarebbe programmato ad agire in questo modo?

L’adolescenza è il periodo di transizione tra l’infanzia e l’età adulta che spesso si verifica in concomitanza con la pubertà, la quale segna l’inizio della maturazione sessuale ed è definibile da marcatori biologici. È possibile descriverla come una transizione progressiva verso l’età adulta con un corso temporale ontogenetico molto ombroso.

Parlando in termini evolutivi, è il periodo durante il quale si acquisiscono le competenze di autonomia al fine di accrescere il proprio successo al momento della separazione dall’ambiente protettivo della famiglia, ma anche durante il quale vi sono maggiori probabilità di circostanze dannose, come per esempio lesioni, depressione, ansia e… dipendenza.

I comportamenti orientati alla ricerca dell’indipendenza sono comuni in tutte le specie, manifestati in un aumento delle interazioni sociali rivolte ai pari e nell’intensificazione di comportamenti orientati alla ricerca di novità e all’assunzione del rischio. I fattori psicosociali hanno un impatto sulla propensione degli adolescenti al comportamento rischioso.

Tuttavia, tale atteggiamento è il risultato di uno squilibrio alimentato biologicamente tra una maggiore ricerca di novità e sensazioni in concomitanza ad una competenza di auto- controllo immatura. Ciò avviene a causa dello sviluppo differenziale di questi due sistemi: limbico e di controllo. Le congetture suggerirebbero che tale pattern di sviluppo sia una caratteristica evolutiva. È necessario attuare un comportamento ad alto rischio quando si lascia la propria famiglia al fine di trovare un compagno e assumere rischi nello stesso momento in cui gli ormoni spingono gli adolescenti a cercare partner sessuali.

Nella società odierna, dove questa fase evolutiva può prolungarsi a tempo indeterminato, con figli che abitano con i genitori e finanziariamente dipendenti dagli stessi e che scelgono i propri compagni più avanti nella vita, è possibile considerare questa evoluzione inappropriata. Andare alla ricerca dei propri pari e discutere con i genitori, contribuisce ad allontanare l’adolescente dal territorio di casa, attitudine che è osservato anche nelle specie animali, quali i roditori, i primati non umani e in alcuni uccelli. Rispetto agli adulti, i ratti preadolescenti mostrano un incremento nei comportamenti mirati alla ricerca di novità in un paradigma di novità a libera scelta.

Nel cervello adolescenziale, l’equilibrio tra i sistemi di dopamina subcorticali e corticali inizia a spostarsi verso livelli maggiori di dopamina corticale. Un simile protratto snervamento dopaminergico è stato dimostrato anche nella corteccia prefrontale dei primati non umani. Pertanto, questo apparente aumento nell’assunzione del rischio sembrerebbe verificarsi trasversalmente alle specie ed avere importanti scopi adattativi.

Nel campo della psicologia, le differenze individuali nel controllo degli impulsi e nell’assunzione dei rischi sono state riconosciute da tempo. Forse uno degli esempi classici delle differenze individuali segnalate in queste abilità, fornito dalla letteratura della psicologia sociale, cognitiva ed evolutiva, è il ritardo della gratificazione.

Il ritardo della gratificazione viene normalmente valutato nei bambini dai tre ai quattro anni. Al bambino viene chiesto se preferisce una ricompensa piccola, un biscotto, oppure una ricompensa grande, due biscotti. Il piccolo viene poi informato che lo sperimentatore si assenterà dalla stanza per preparare le attività successive e gli spiega che se rimane nella propria sedia e non mangia alcun biscotto, riceverà la ricompensa grande. Se il bambino decide di non aspettare oppure non può aspettare, dovrà suonare un campanello per chiamare lo sperimentatore e così ricevere la ricompensa più piccola. Una volta chiarito che il bambino comprende il compito, viene fatto sedere al tavolo con le due ricompense e il campanello. Le distrazioni nella stanza sono minimizzate, senza alcun giocattolo, libro o disegno. Lo sperimentatore torna poco dopo, oppure si fa vivo se il bambino suona il campanello, se mangia le ricompense, o se mostra qualsiasi segno di angoscia. Walter Mischel dimostrò che si comportano tipicamente in uno dei due modi:

  1. a) suonano il campanello subito per poter ricevere il biscotto, il che significa che ne ricevono solo uno;
    b) aspettano e ottimizzano il guadagno, e ricevono entrambi i biscotti.
    Questa osservazione suggerisce che alcuni individui mostrano una maggiore capacità rispetto ad altri nel controllare i propri impulsi di fronte ad incentivi estremamente attraenti; tale tendenza è rilevabile nel periodo della prima infanzia e sembrerebbe permanere durante l’intera adolescenza e nella prima parte dell’età adulta. Quale potrebbe essere la spiegazione per le differenze individuali nel comportamento e nell’assunzione ottimale di decisioni?

Il circuito mesolimbico dopaminergico, implicato nell’elaborazione della ricompensa, è alla base del comportamento rischioso. Le differenze individuali in questo circuito, quali le varianti alleliche nei geni relativi alla dopamina, risultanti in un eccesso o in una insufficienza di dopamina nelle regioni subcorticali, potrebbero essere relative alla propensione a comportamenti rischiosi.

Quindi alcuni potrebbero essere più inclini alle scelte rischiose come gruppo, ma altri saranno più inclini a comportamenti rischiosi, mettendoli su un piano di rischio potenzialmente più elevato degli esiti negativi standard. Pertanto, è importante considerare la variabilità individuale quando si esaminano rapporti complessi tra cervello-comportamento relativi all’elaborazione di ricompense e all’assunzione del rischio nelle popolazioni in fase di sviluppo.

Ma c’è di più, l’associazione tra attività nel circuito neurale correlato alla ricompensa durante l’anticipazione di una ricompensa monetaria significativa e le misure dei tratti di personalità dell’assunzione del rischio e dell’impulsività durante l’adolescenza, sono altri fattori da prendere in considerazione.

Alcuni soggetti che percepiscono i comportamenti rischiosi come comportamenti che portano a conseguenze negative attivano in misura inferiore il nucleo accumbens alla ricompensa. Questa associazione risulta essere più evidente nella maggiore parte dei bambini, in quanto gli adulti valutano le conseguenze di tale comportamento come possibili e reali. Le valutazioni dell’impulsività non sono associate all’attività nel nucleo accumbens bensì all’età.

Certuni individui sono più inclini ad avere comportamenti rischiosi a causa di cambiamenti evolutivi in concerto a una variabilità nella predisposizione di un determinato individuo a comportamenti rischiosi, anziché a causa di semplici cambiamenti nell’impulsività.

Il comportamento adolescenziale è stato ripetutamente caratterizzato come azzardato e impetuoso, eppure esistono traiettorie evolutive diverse da soggetto a soggetto. Nello specifico, l’impulsività è associata a uno sviluppo immaturo della regione prefrontale ventrale e diminuisce gradualmente dall’infanzia all’età adulta. L’assunzione del rischio è associata a un aumento dell’attività del nucleo accumbens, la quale è esasperata nei giovani adolescenti. Pertanto, non è possibile spiegare le scelte e i comportamenti adolescenziali solo con l’impulsività o lo sviluppo protratto della corteccia prefrontale, in quanto ci si aspetterebbe che i bambini siano ancora più inclini ad assumere pericoli.

Le osservazioni sopra illustrate forniscono una base neurale del perché alcuni adolescenti sono a maggior rischio di altri, ma forniscono anche una base per spiegare come il comportamento degli adolescenti è diverso per quanto riguarda la scelta e i tempi di assunzione del rischio. Queste differenze individuali ed evolutive possono fornire una spiegazione della vulnerabilità in alcuni individui all’assunzione del rischio associata al gioco online e alla dipendenza patologica da videogiochi.

La maturazione del cervello e lo sviluppo adolescenziale

L’adolescenza rappresenta un periodo di transizione che ha luogo principalmente nella seconda decade di vita umana. È la fase finale di un pattern prolungato di sviluppo e maturazione che è emerso tardi nell’evoluzione della nostra specie e può conferire un vantaggio evolutivo grazie all’ampio periodo di tempo per la maturazione del cervello e dei suoi apparati cognitivi prima di raggiungere il pieno potenziale del giovane adulto.

Nel passaggio dalla fase infantile di dipendenza dall’adulto alla fase adulta pienamente autonoma, l’adolescente attraversa numerosi cambiamenti nello sviluppo fisico, fisiologico, cognitivo, emotivo. L’interfaccia tra affetti, ragionamento, presa di decisioni e azione è uno degli elementi vitali nel suo sviluppo. Questa rassegna si focalizza sui trend attuali nell’uso di tecniche non invasive di mappatura del cervello per ampliare le nostre conoscenze delle relazioni cervello-comportamento durante questo periodo dello sviluppo umano. Questo è il primo passo verso lo studio delle forze presenti nell’ambiente e nel genoma del soggetto che agisce sul substrato neurale alla base di comportamenti complessi dell’adolescente.

Innovazioni tecnologiche e concettuali hanno fortemente accresciuto la nostra capacità di correlare maturazioni strutturali e funzionali del cervello con il comportamento dell’adolescente. Il concetto di organizzazione modulare della corteccia cerebrale dei primati è il più proficuo riferimento per mappare la funzione sulla struttura: aree distinte della corteccia si specializzano nell’elaborazione di differenti tipi di informazioni e al tempo stesso le condividono attraverso specifici circuiti neurali. In questo contesto l’importanza della connettività neurale per la comunicazione tra regioni specializzate del cervello è sempre più riconosciuta.

La mappatura del cervello fornisce la localizzazione accurata dei cambiamenti strutturali e funzionali in regioni di sostanza grigia specializzate, così come la valutazione dell’integrità strutturale e funzionale delle fibre di sostanza bianca che le collegano.

Insieme alla visione modulare del cervello dei primati, possiamo iniziare a mappare i cambiamenti maturativi nelle relazioni cervello- comportamento nell’adolescenza. Un flusso di informazioni lineare attraverso il cervello dipende per la maggior parte dall’integrità strutturale e dalla maturazione delle vie di sostanza bianca. In passato questo poteva essere valutato soltanto post-mortem. Sebbene l’istologia abbia una maggiore specificità, elementi neurali vis-a-vis che cambiano con l’età e valutazioni in vivo dello sviluppo della sostanza bianca, presentano due vantaggi fondamentali rispetto all’approccio post- mortem:

– la capacità di raccogliere campioni consistenti

– la possibilità di acquisire simultaneamente dati comportamentali.

Ad oggi uno dei maggiori database ottenuto in bambini e adolescenti durante lo sviluppo è disponibile presso il Child Psychiatry Branch del National Institute of Mental Health. Nel complesso si è concordi in merito al cambiamento non lineare dei volumi corticali di sostanza grigia nelle diverse regioni per tutta l’infanzia e l’adolescenza.

La scoperta più sensazionale è che l’apparente perdita di sostanza grigia durante la tarda adolescenza avviene forse dopo l’inizio dell’età puberale. Ma si tratta veramente di una perdita di sostanza grigia o di un acquisto di sostanza bianca intracorticale?

Il cervello al servizio del gioco

Gioco, dal latino iocus vale a dire scherzo, burla, è un termine tanto usuale quanto dal significato ampio e frammentario. Questo contrasto tra il concetto di frivolezza attribuito al gioco e i meriti che gli si ascrivono, può essere composto se ci si sofferma ad analizzare le nozioni implicite al gioioso:

-separata, ossia circoscritta entro limiti di tempo e di spazio fissati in anticipo;
-incerta, sia nel risultato (non potendosi determinare in anticipo lo svolgimento), che nell’iniziativa (essendo presente, sempre in ogni gioco una necessaria, ma non eccessiva, libertà di azione del giocatore);
-improduttiva, non creando nessuna ricchezza, ma limitandosi esclusivamente a spostare beni e proprietà; regolata, sottoposta, invero, a convenzioni che sospendono le leggi ordinarie e instaurano momentaneamente una legislazione nuova che è la sola a contare;

-fittizia, accompagnata, in altre parole, dalla consapevolezza specifica di una diversa realtà o di una totale irrealtà nei confronti della vita normale.

Un trenino di legno o una costruzione della lego come anche un pallone sono oggetti parlabili, hanno dimensioni, superficie, peso, morfologia e alcune volte anche audio. Il video invece ha di per sé solamente la possibilità di stimolare la visione. Il videogioco infatti nasce con la televisione e utilizza lo stesso linguaggio anche se al contrario è interattivo. Per utilizzarli servono dunque alcune competenze: capacità induttiva, ragionamento strategico, coordinazione oculo-motoria, tempismo, e altri importanti processi cognitivi. Non bisogna però dimenticare che non è solo un apparecchio mediale, ma anche un vero e proprio affare di successo che fin dall’inizio stimolò altri successi, infatti, oggi come oggi sia la parte hardware che la parte software di un videogioco richiedono all’azienda produttrici grandi investimenti.

Altro aspetto importante è che, se un certo grado di violenza e di azione è sempre stata parte del divertimento siano essi tradizionali o a video, le ultime tendenze denunciano svolte decisamente preoccupanti: automobilisti dediti a investire il maggior numero possibile di passanti, serial-killer che vagano per le strade alla ricerca di esseri umani da uccidere, piccoli criminali che cercano di suscitare consensi presso il boss commettendo rapine o uccidendo poliziotti, e così via. Siamo completamente fuori dagli schemi narrativi delle favole nel quale il male è al servizio del bene o della difesa di sé stessi. La violenza diventa gratuita, ludica, pura manifestazione di forza e di onnipotenza che non si ferma davanti al limite posto dall’altro, ma si impone in tutta la sua primordialità.

Proprio l’allontanamento dagli schemi narrativi fabulistici e l’approdo a un’aggressività senza valori di carattere anche solo espiativi conferisce al gioco online violento una capacità di evocazione profonda.

Ciò consente di avanzare letture interpretative che vedono qui una fonte di gratificazione del bisogno di potere e controllo sul reale; dov’è possibile abbandonarsi all’illusione infantile di un controllo onnipotente sul mondo e a quella della negazione del bisogno dell’altro.

L’uso intensivo può comportarne una serie di complicazioni mediche dall’epilessia, a problemi ortopedici legati alla postura, problemi oculistici ma anche problematiche legate all’alimentazione e al ciclo sonno veglia. In ambito psichiatrico la trans dissociativa da videoterminale è stata descritta come sono stati descritti episodi depressivi e psicotici.

All’inizio del secolo scorso, esattamente nel 1908, Joyce McDougall descrisse la pugnacità, ovvero l’istinto aggressivo tra gli istinti dell’uomo. L’aggressività intesa come intenzione di produrre un danno a un’altra persona è stata da allora al centro di innumerevoli pubblicazioni.

Due autori si sono interessati all’origine etimologica del termine aggressività, e sono pervenuti a due esiti diversi, ma altrettanto significativi. Luisella De Cataldo Neuburger afferma:

«…La storia dell’umanità inizia con un crimine orrendo: un fratricidio per motivi futili. Non c’è regno, città, dinastia, movimento ideologico che non abbia i suoi scheletri nell’armadio. Romolo uccide Remo e fonda Roma. Persino la religione comincia con una crocifissione che ha tutta l’aria di un errore giudiziario…».

L’aggressività viene quindi vista fin dall’inizio come un semplice e naturale istinto. Letteralmente l’istinto è uno schema di comportamento – programmato filogeneticamente e pertanto non acquisito, tendente a una meta importante per la sopravvivenza dell’individuo o della specie, che l’organismo attua secondo modalità stabili e pressoché automatizzate. Saranno l’etologia e la psicoanalisi ad interessarsi molto dell’aggressività.

La teoria etologica

Che l’aggressività sia in primo luogo una risorsa era chiaro già dai primi studi di K. Lorenz nel 1963. Senza ira non c’è sopravvivenza. In quest’ottica però appunto l’aggressività è in funzione di istinti di base che consente la sopravvivenza della specie, visto che l’uomo uccide per sfamarsi o per difendersi. Lo stimolo della fame induce all’organizzazione della situazione della caccia che comporta aggressività.

Se l’organismo non riesce però a incontrare uno stimolo sufficientemente idoneo all’espressione della sua energia, l’aggressività può cumularsi e dunque esplodere spontaneamente anche in assenza di chiare ragioni scatenanti.

L’inquadramento dell’aggressività all’interno del principio del piacere comporta una lettura di questa reazione emotiva come un meccanismo naturale e spontaneo dell’individuo in seguito alle frustrazioni sperimentate durante la ricerca del piacere e dell’appagamento della libido.

Nel suo scritto del 1920 Sigmund Freud formulava il principio di ripetizione secondo il quale ripetiamo i comportamenti piacevoli. A fianco dell’istinto di vita Eros, Freud individuò quindi una pulsione di morte Thanatos che non tendeva tanto all’appagamento di un desiderio, quanto piuttosto al ritorno ad uno stato inorganico originario.

«Esistono due specie fondamentali di istinti, gli istinti sessuali, nel senso più ampio del termine Eros e gli istinti aggressivi, il cui scopo è la distruzione». Sigmund Freud

Esprimendo l’aggressività riduciamo la tensione connessa al bisogno di distruzione caratteristica di tale istinto ed evitiamo che, rivolgendosi sul sé, tale tendenza conduca all’autodistruzione. Il termine catarsi venne introdotto dallo psicanalista in relazione ai temi dell’isteria; la cura catartica consentiva l’abreazione di un’energia repressa non liquidata, attraverso la rievocazione di una scena spiacevole rimossa. Già in questa prima concezione si evidenziava come fosse la coscienza e l’espressione del materiale rimosso a consentire la liberazione delle cariche affettive legate a tale materiale.

Ma allora la domanda è: come possiamo attivare il pensiero? Quali sono i fattori che favoriscono la rielaborazione?

Come tutti ben sappiamo la televisione esercita un effetto di fascinazione sui bambini, nel senso che essi si sentono profondamente coinvolti da ciò che vedono nello schermo, e si illudono di partecipare ad uno scambio comunicativo, nonostante la comunicazione televisiva sia in realtà a senso unico. Il piccolo schermo è in grado di offrire al bambino concezioni narrative che hanno in sé stessi l’estremo.

La realtà che la tecnologia porta è per il bambino o completamente buona o del tutto cattiva. Questo accade perché il pensiero infantile adopera categorie unidimensionali e dicotomiche nel processo di concettualizzazione della realtà. Infatti le scene a più forte carica emotivo-eccitativa, come ad esempio quelle paurose, vengono ricordate meglio da un punto di vista quantitativo, nel senso che gli adolescenti si dimostrano capaci di riferire accuratamente dettagli relativi ai singoli elementi verbali contenuti nella scena.

Va inoltre tenuto presente che i materiali televisivi fortemente saturi d’azione, emozioni e ritmi serrati tali cioè da indurre e mantenere un tasso elevato di arousal, eccitazione e tensione possono produrre un impoverimento nei processi di rappresentazione dei simboli. La comprensione delle relazioni causali può essere ostacolata dalla presenza di scene fortemente sentite e coinvolgenti come quelle di una violenza fisica. Quindi si focalizza l’attenzione solo su quello stimolo a discapito degli altri.

L’aggressività come comportamento appreso

Pensare all’aggressività come a un comportamento appreso significa necessariamente porsi la domanda sulle condizioni che possono suscitarla. Potrebbe essere definita come una risposta che emette stimoli nocivi verso una controparte.

E’ stato grazie all’approccio comportamentale se si iniziò finalmente a studiare questa emozione cercando di capire come si genera. Sulla base di questo presupposto è nato il concetto di “condizionamento operante” per riferirsi a un meccanismo tale per cui l’associazione di un esito piacevole a una risposta, ne facilita la futura ricomparsa; il succedersi di una risposta e di un evento che la rende più probabile è detto rinforzo, il quale può essere sia positivo, quando consiste nella presentazione di stimoli piacevoli, o negativo, quando invece consiste nell’eliminazione di uno stimolo disturbante, come una scossa elettrica, una risposta d’ansia… E’ comunque necessario tener presenti tutte le seguenti variabili:

– le precedenti esperienze, il modo in cui la situazione viene percepita, l’abitudine alla risposta aggressiva;
– i processi di acquisizione di modelli e norme culturali favorevoli o meno all’espressione di aggressività: imitazione dei comportamenti presenti nella famiglia o nel gruppo dei pari, norme di carattere generale, stereotipi, ed altri schemi mentali acquisiti dai mass media;

– lo stimolo che incita al comportamento aggressivo e la specifica situazione in cui l’aggressione si verifica;
– il rinforzo del comportamento appreso e il suo mantenimento nel repertorio comportamentale del soggetto.

Tale concezione di reciproco determinismo indica inoltre la violenza come risultante di tre forze: ambiente, individuo, comportamento.

Sono sostanzialmente i processi e le strutture cognitive a selezionare le informazioni rilevanti dell’ambiente, a consentirci di riconoscerle, e dunque a permetterci di mettere in atto gli schemi d’azione ritenuti più pertinenti ed adeguati.

La violenza può anche crearsi dall’imitazione. Vale la pena ricordare che con l’imitazione il soggetto si appropria rapidamente di insiemi articolati e complessi di conoscenze o di comportamenti in virtù di ciò che vede fare ad un’altra persona, il cosiddetto il modello, evitando di apprendere ogni cosa per prove ed errori, e di mettere in atto quei comportamenti che hanno condotto a esiti svantaggiosi per il modello stesso.

Inoltre va tenuto conto della scelta del leader. che è designato in base al successo ottenuto con le sue azioni indipendentemente dalle modalità usate per ottenere la fama. Poiché e la violenza appare nella tecnologia molto più spesso di quanto non accada nella vita reale, i mezzi di comunicazione offrono più opportunità di sperimentarla rispetto alla vita stessa offrendo un maggior numero di modelli negativi. Per lo spettatore le azioni rappresentate insegnano come comportarsi, quale tipo di atteggiamento sia adeguato in una data situazione e, specialmente, quale tipo di conseguenza vi faccia seguito.

Ma attenzione: anche i bambini che giudicano negativamente il comportamento aggressivo di un modello analizzato attraverso i mezzi virtuali, sono disposti a imitarlo se vedono che a esso fa seguito una qualche forma di vantaggio materiale o sociale per il protagonista.

Termini quali disinibizione e desensibilizzazione emozionale sono stati utilizzati per indicare come la visione ripetuta di scene violente può condurre tanto ad una disinibizione del comportamento, quanto ad una desensibilizzazione emozionale.

I media disinibiscono nel senso che la capacità di inibire la violenza è diminuita dalla visione della violenza sui media. Per quanto riguarda invece la desensibilizzazione emozionale è il frutto di una continua esposizione a fenomeni cruenti. Assistere continuamente al disordine porta a un abbassamento della sensibilità emotiva all’aggressione stessa.

Prima di passare gli aspetti teorici dell’aggressività vale la pena osservare che i mass media utilizzano schemi narrativi comuni. Per esempio nei mass media coloro che hanno comportamenti aggressivi ricevono delle ricompense in termini materiali o psicologici. L’eroe è ricco, potente e invidiato.

La teoria di John Dollard e Earl Miller

È il 1939 quando viene pubblicato il famoso libro “Frustrazione e aggressività” ed è la prima espressione del così detto Gruppo di Yale. Il libro ha l’ambizione di coniugare la psicoanalisi con l’approccio comportamentale.

La tesi è che la pulsione all’aggressività non è innata ma deriva dalla frustrazione, intesa come quella condizione che insorge quando il raggiungimento di un fine incontra un ostacolo. È un vero e proprio circolo senza fine: la frustrazione conduce sempre a una qualche forma di aggressività e l’aggressività ed è a sua volta sempre conseguenza di una frustrazione.

Altra questione è la sua direzione. Non sempre infatti viene diretta verso la fonte della frustrazione. Se per esempio la frustrazione ci viene inflitta da un soggetto molto più forte o potente di noi o da qualcuno di cui non ci si possa vendicare, la rabbia può essere spostata verso altre mete.

Non passano molti anni che lo stesso autore propose una variazione della teoria, perché le medesime osservazioni sperimentali non confermano la teoria formulata.

La frustrazione potrebbe essere seguita da reazioni diverse da quelle aggressive come ad esempio dalla fuga, dal pianto o dall’apatia. Interessante per quel tempo fu senza dubbio l’osservazione che un killer professionista direzionava la sua aggressività secondo motivazioni che apparentemente non avevano nulla a che fare con la frustrazione.

Mantenendo al centro la frustrazione l’aggressività è una delle risposte possibili alla frustrazione e questa è responsabile non più di una reazione violenta, quanto di uno stato di facilitazione e preparazione alla violenza. Se la prima repressione rimane come necessaria condizione per l’aggressività non è però sufficiente. Lo stato di tensione interno creato dalla frustrazione sfocia in un atto aggressivo, e sarebbe possibile predire la violenza da parte dell’adolescente se si conoscono la self-efficacy, le attitudini e le strategie alternative al conflitto.

L’uso della tecnologia digitale è ormai ampiamente diffuso e come per il cinema anche per i videogiochi esiste un sistema di rating che fornisce indicazioni sul tipo di gioco e consiglia di usarlo per alcune fasce d’età e non per altre. Questo sistema è tuttavia al centro di numerose critiche e dibattiti. Pur essendo uno strumento pensato per gli educatori, i genitori e gli insegnanti, in realtà è poco conosciuto e quindi quasi mai utilizzato.

È bene comunque distinguere i problemi derivati da un uso eccessivo di computer, internet, videogiochi e da comportamenti aggressivi indotti dalla visione di violenza attraverso questi mezzi. Negli ultimi decenni sono aumentati molto la desensibilizzazione e la paura. Comportamenti antisociali, violenti e psicopatici potrebbero essere attribuiti alla lesione di alcune aree cerebrali quali la corteccia prefrontale dorsale e ventrale, l’amigdala e il giro angolato. Inoltre si trovano ridotti livelli di 5- hydroxyindoleacetic acid nel liquido cerebrofinale associati all’impulsività aggressiva. Il tutto in aggiunta a una diminuita responsività serotoninergica con il diretto coinvolgimento della corteccia prefrontale.

Anche se al momento non è possibile identificare un network concettuale specifico per la violenza, l’ipotesi che comunque permane è che sia fortemente legata al sistema serotoninergico e che coinvolga diverse regioni quali la corteccia orbito frontale, il lobo temporale a l’amigdala.

La visione di violenza attiva quindi una specifica regione dell’emisfero destro: il precuneo, il cingolato posteriore, l’amigdala, l’inferiore parietale, la corteccia prefrontale e premotoria; anche se tali zone si attiverebbero sia durante la visione di violenza che di ansia e ingiustizia.

Quindi in parole povere… l’esposizione a media con contenuto di violenza aumenta inevitabilmente i pensieri aggressivi in tre aspetti quali arousal, cognizione, affetto. Ma esiste anche una differenza di genere. I maschi attivano maggiormente il sistema mesolimbico e corticale rispetto alle femmine, e questo in linea di massima potrebbe azzardare l’ipotesi e spiegare il fatto che i maschi tendono a utilizzare maggiormente i videogiochi.

L’adolescente verso il piacere: attrattiva e dopamina

A questo punto appare spontaneo domandarsi in che modo questi eventi modificano alcune funzioni cerebrali come la capacità di prendere decisioni e di gestire il rischio.

L’ipotesi di partenza è che se gli adolescenti non hanno ancora ultimato lo sviluppo dei circuiti neurali frontali, necessari al controllo degli impulsi, mettendo davanti allo stesso stimolo adulti e adolescenti si dovrebbe vedere una differenza.

Si può essere portati a utilizzare come punto di riferimento per interpretare l’età evolutiva sia la maturità cerebrale sia la vulnerabilità. Se in generale tutti gli adolescenti assumono maggiori rischi a causa di un naturale sbilanciamento che la maturazione precoce del sistema limbico comporta rispetto alla corteccia, bisogna considerare anche la presenza di fattori di rischio, cioè il concetto di vulnerabilità.

Alla base di questo c’è una teoria, secondo la quale esiste una variabilità individuale che assieme alla maturità cerebrale può spiegare il fatto che alcuni adolescenti siano particolarmente a rischio nell’assumere comportamenti pericolosi o devianti.

Il cervello umano è plastico e quello di un bambino lo è ancora di più; e una vasta gamma di esperienze quotidiane possono cambiarne le connessioni neuronali e le funzioni. Le tecnologie digitali stanno di fatto cambiando i nostri cervelli, aumentandone l’attività in diverse regioni facendoci svolgere compiti diversi.

L’uso eccessivo della tecnologia altera la reattività del cervello nei circuiti neurali che controllano i processi decisionali e i ragionamenti complessi. Variazioni dell’attivazione neurale in regioni diverse possono essere previste in qualsiasi attività di apprendimento. Ripetendo un’attività fisica o mentale, modifichiamo alcuni circuiti del nostro cervello, rafforzandoli e costruendo mano a mano un’abitudine.

La neuro- plasticità rappresenta il modo con cui, nel nostro cervello, possiamo costruire le consuetudini, le stesse che, grazie ai circuiti sviluppati, desideriamo mantenere. Il meccanismo deputato all’apprendimento, al cambiamento e allo sviluppo è lo stesso che può portare alla fissità e alla patologia: è come se i nostri neuroni fossero indotti a costruire circuiti, ma anche a mantenerli nel tempo e, quindi, nei casi di apprendimento di adattamenti disfunzionali o patologici, la mente si allena a mantenerli. Per questo molte forme di dipendenza si aggravano con il ripetere determinati comportamenti e pensieri annessi, rafforzando percorsi neurali specifici e favorendo quei processi di cronicità ben noti in campo clinico.

In altre parole, gli strumenti che usiamo per scrivere, leggere, manipolare in altro modo le informazioni lavorano sulla nostra mente, mentre la nostra mente lavora con essi e gli studi sulla neuro-plasticità cominciano a fornirci delle chiavi di lettura per spiegare come gli strumenti tecnologici usati dall’uomo per estendere il suo sistema nervoso, ne modellino la struttura biologica, rinforzando determinati circuiti neurali e indebolendone altri.

L’assorbimento in rete può accompagnarsi a un accantonamento di alcuni bisogni di base: sonno, sete, fame. Ed eccoci qua sul motivo per cui i giochi sono così coinvolgenti e sul perché un loro uso eccessivo può trasformarsi in un vero e proprio problema cronico.

In presenza di molti altri piaceri gratificanti, come il cibo, le droghe, il gioco d’azzardo e la musica, quando giochiamo ai videogame il mesencefalo rilascia dopamina. In una quantità tale comparabile agli effetti dei farmaci psicostimolanti e i videogiochi offrono molti esempi di reward per unità di tempo rispetto alla maggior parte delle esperienze del mondo reale.

Quando i giocatori di videogiochi vedono le immagini del loro gioco preferito, la risposta del cervello è simile a quella osservata quando i tossicodipendenti incontrano stimoli che riattivano la memoria della sostanza, e i cambiamenti nel cervello successivi a un periodo di sei settimane di gioco sono paragonabili a quelli osservati nelle prime fasi di addiction da stupefacenti. Il gaming può stimolare il sistema di reward del cervello e questo può aiutare a spiegare la sua forte attrattiva.

Ma va tenuto conto anche e soprattutto dei videogiochi violenti e prosociali, che riescono a spostare le tendenze comportamentali rispettivamente verso l’aggressività e l’empatia.

Esiste un possibile legame tra videogiochi violenti e apprendimento del comportamento aggressivo e che i divertimenti virtuali sono un fattore di rischio causale per lo sviluppo di atteggiamenti anormali. Per questo la desensibilizzazione legata alla ripetuta esposizione a giochi violenti mostra come le scene di violenza reale suscitino segnali ridotti tra i videogiocatori di intrattenimenti feroci rispetto ai videogiocatori di quelli non-veementi.

Ma esiste anche un effetto inverso in risposta ai giochi che incoraggiano empatia e sensibilità, mostrando che i videogiochi possono insegnare a fornire risposte affettive anche in tal senso.

La complessità del comportamento umano e dei contesti in cui la violenza reale si verifica, tuttavia, rende difficile provare o confutare l’ipotesi che questi ne siano importanti fattori causali. Il contenuto di un programma da svago online può influenzare la successiva reazione emotiva, ma non può essere considerata una prova determinante del fatto che un individuo raggiunga per forza di cose un modo di fare equivalente.

È ragionevole ipotizzare che il contenuto emotivo ludico possa influenzare la risposta affettiva, e che giocarci sposta generalmente la tendenza comportamentale rispettivamente verso la prepotenza e l’empatia.

Le caratteristiche del mondo online offrono un grandissimo assortimento di divertimenti di ruolo, personaggi, simulazioni, mezze verità, eccessi, resi possibili dalle caratteristiche di anonimato e assenza di connotazione visiva e uditiva che mettono al riparo da qualsiasi conseguenza. Anche quando l’anonimato non è totale, la distanza fisica e la mancanza di partecipazione sociale permettono di essere meno inibiti, meno controllati e di sottrarsi un poco al giudizio di rigide istanze egocentriche.

La sindrome di dipendenza

L’idea di un concetto unificato di dipendenza o sindrome è dovuta alla necessità di tenere conto di alcuni dati ed evidenze empiriche già da tempo conosciuti. La somiglianza fenomenologica tra dipendenza da sostanze e alcuni comportamenti compulsivi, concepiti come dipendenze comportamentali, appare evidente da tempo e ha portato in modo quasi naturale a trasporre i modelli di cura nel trattamento delle dipendenze senza sostanza.

La perdita di controllo, il cosiddetto loss of control, rappresenta il craving ed è considerata la caratteristica essenziale della dipendenza, anche se il termine perdita può apparire eccessivo o prestarsi a diverse letture. Il controllo, piuttosto che essere concepibile in termini dicotomici, sembra, infatti, variare lungo un continuum temporale e sarebbe forse più corretto parlare di compromissione del controllo (impaired control), adottandone una concezione dimensionale.

In ogni caso le dipendenze sembrano condividere tutte la progressiva percezione di perdita della capacità di esercitare controllo sul comportamento dipendente, la sensazione di impossibilità di resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento, la compromissione della vita sociale, familiare e lavorativa.

A proposito di somiglianza fenomenologica, le caratteristiche condivise dalle tossicodipendenze e dalle dipendenze comportamentali, evidenziano: la dominanza, le alterazioni del tono dell’umore, la tolleranza e l’astinenza, il conflitto, la ricaduta.

Nella dipendenza l’attività domina il pensiero e l’atteggiamento della persona; l’eccitazione iniziale o la diminuzione della tensione legate all’intraprendere l’attività o all’assunzione della sostanza provocano cambiamenti del tono dell’umore; aumenta il bisogno di incrementare progressivamente la quantità di droga o l’attività per ottenere l’effetto desiderato e la persona prova malessere psichico e fisico quando interrompe o tenta di limitare il comportamento o l’uso della sostanza.

Trovano spazio anche il concetto di conflitto, inteso sia in termini interpersonali, tra il soggetto e l’ambiente, sia intrapsichici, legato all’ambivalenza verso il comportamento dipendente, e il concetto di ricaduta, la tendenza a riprendere l’attività o l’uso dopo averli interrotti.

Alle somiglianze fenomenologiche si accompagnano alcune interessanti evidenze empiriche. Accade frequentemente che pazienti in corso di riabilitazione passino da una dipendenza all’altra. Questo fenomeno, definito hopping, è concepito come una cross-dipendenza, è alla base del poliabuso e giustifica il fatto che un alcolista o un cocainomane possano nello stesso momento o in momenti diversi diventare giocatori patologici, suggerendo la presenza di una radice comune.

La non specificità dei trattamenti, sia farmacologici sia psicosociali, è un ulteriore dato a favore di una concezione unificata delle dipendenze. Spesso trattamenti farmacologici specifici per sostanze psicoattive riducono anche l’uso smodato di altre droghe o attività; diversi trattamenti psicosociali vengono usati in modo intercambiabile ed efficacemente per espressioni sia chimiche sia comportamentali della dipendenza.

In ambito bio-psicosociale lo stato di dipendenza patologica sembra diminuire le differenze di personalità tra le persone e rendere i dipendenti molto simili tra loro. Ciò significa che differenti espressioni della dipendenza danno origine a simili conseguenze, tra cui fenomeni di neuro-adattamento come tolleranza e astinenza, depressione, disonestà.

Un ulteriore aspetto che segnala la somiglianza, non solo fenomenologica, tra dipendenze e comportamentali riguarda i loro modelli di sviluppo nel tempo: sembra esserci una sorta di storia naturale nelle dipendenze che non cambia significativamente tra i diversi videogiochi, con un andamento di tipo cronico, caratterizzato da temporanee sospensioni e ricadute.

L’addiction si configura in questo modo come una sindrome di dipendenza con espressioni multiple e opportunistiche, con possibilità di lettura di fenomeni in modo differenziato. Il passaggio da una dipendenza all’altra potrebbe essere la conseguenza di un disturbo sottostante, depressione o disturbo della personalità, che nel corso del tempo, se non adeguatamente curato, trova diverse forme di espressione.

Del resto l’elevata comorbidità delle misure virtuali con altri interessi mentali sono un effetto della prospettiva categoriale adottata dai manuali diagnostici, che favorisce la rilevazione indipendente di più disturbi sia all’interno dello stesso asse sia su assi diversi.

Gli attuali sistemi diagnostici, che hanno il merito di facilitare la comunicazione tra esperti e di risultare affidabili, nel senso che osservatori diversi riescono a fare la stessa diagnosi sullo stesso paziente, sono basati sulla condivisione di criteri descrittivi che mettono in secondo piano la validità dei costrutti, più curata all’interno di un sistema diagnostico basato sull’eziologia.

Una mancata concezione unificata delle dipendenze potrebbe avere risentito di questo processo di frammentazione diagnostica, che non ha favorito la progettazione di studi di ampio spettro, capaci di mettere in relazione disturbi considerati distanti e appartenenti a diverse categorie diagnostiche.

Il concetto di dipendenza

La parola dipendenza non è sinonimo di debolezza costituzionale o malattia, bensì è uno stato della mente e in origine anche del corpo, che sottende al movimento delle nostre pulsioni verso una meta e che attesta la nostra capacità di legarci agli altri e agli oggetti.

Quando non si esprime in modo patologico, questa è l’essenza stessa delle relazioni umane e appare naturale.

Sappiamo dipendere da figli e genitori per innumerevoli aspetti, dagli amici più cari, dal lavoro che svolgiamo, dalla società e persino dagli atti routinari della nostra vita la cui interruzione è fonte di malessere e disarmonia.

In termini evolutivi una relazione di dipendenza è finalizzata all’acquisizione delle competenze che consentono di diventare se stessi e di esplorare con fiducia il mondo. Dipendiamo per poter apprendere, esplorare e successivamente diventare creativi, sentendo di poter contare su una base sicura prima esterna e poi introiettata.

La capacità di legame comporta il rischio della perdita connessa prima all’ansia e poi al dolore mentale, che a loro volta generano difese adattive o condotte reattive, per evitare quel sentimento di non esistenza che coglie chiunque abbia vissuto un abbandono.

Si tratta di una tristezza e di una repressione primaria che viene prima della possibilità di essere consapevoli di una perdita, perché è antecedente alla capacità di riconoscerla ed è questo il motivo per cui tale angoscia non può essere vissuta come malinconia. Questo accade quando è venuta a mancare la soddisfazione dei bisogni primari e quindi una sana dipendenza con l’ambiente post-natale, in genere la madre, configurando una sana dipendenza come l’unico terreno fertile per crescere con sufficiente armonia.

Nel corso della vita le relazioni significative si fondano su un rapporto di reciproco legame, dove entrano in gioco sentimenti spesso conflittuali, perché articolati tra opposte tendenze: il bisogno di legarsi senza compromettere il proprio senso di identità e il timore di perdere ciò che per noi è importante e che non possiamo controllare. È come accettare di essere costantemente in bilico, ma con la possibilità di resistere a questo senso di precarietà con la creatività e l’acquisizione di nuove competenze.

È vero per esempio che le separazioni fanno crescere, come è vero che gli abbandoni arrestano la crescita e il confine che li separa è sfumato a tal punto da rendere ogni separazione anche un abbandono.

È necessario fare riferimento a un concetto ampiamente condiviso: una dipendenza diventa patologica quando la natura del vincolo che lega una persona a una sostanza o a un comportamento possiede i caratteri della compulsività.

In altre parole, quando i pensieri e le azioni di un individuo si svolgono su un panorama di incoercibile coazione a ripetere, dove il bisogno sta al posto del desiderio e il dolore mentale impedisce l’accesso alla creatività e alla possibilità di vivere le attese e la solitudine.

Ciò a conferma che non è il tipo di comportamento, la sua frequenza o l’accettabilità sociale a determinare se un tipo di condotta sia qualificabile come addiction, ma è come questo modello si riferisce e influisce sulla vita dell’individuo. Nell’ambito della nosografia psichiatrica il termine addiction fa maggiore riferimento agli aspetti psicologici e comportamentali della dipendenza da sostanza, rispetto al termine dependence, che invece ne richiama i substrati biologici legati alla dipendenza fisica e alla crisi d’astinenza.

Il primo termine appare strettamente legato all’idea della mancanza di libertà (dal latino addictus, che indicava lo schiavo assegnato a un padrone) e si usa trasversalmente per descrivere qualsiasi forma di dipendenza, da sostanza o di tipo comportamentale, interpretandone la psicopatologia in chiave dimensionale. La condotta compulsiva si configura come fuori controllo e descrive una forte, improvvisa e improcrastinabile spinta verso l’assunzione di una sostanza o l’attivazione di un comportamento, che si traduce in un sostanziale salto di qualità nelle rappresentazioni mentali dei pazienti. In questo senso è presente nei tossicomani, come nei giocatori d’azzardo, nei cleptomani o nei bulimici, e ci rimanda alla trasformazione delle pulsioni istintive in forme di mania appetitiva che nella Psicopatologia Generale si distingue da quegli istinti naturali, generati da impulsi somatici e che mirano all’autoconservazione della specie. L’appetizione maniaca è sostenuta da una sensazione di vuoto che può essere dovuta tanto alla natura quanto allo stato attuale di un individuo e viene percepita come estranea, coercitiva e sopprimibile solo con la soddisfazione del bisogno. Ogni forma di patologia compulsiva trova nella ripetizione appetitività. Non può essere modificata qualitativamente dalla forza di volontà perché antecedente allo sviluppo di un Io cosciente. La compulsività nasce come complementare a questa mancanza e agisce in un sistema chiuso in sé, dove viene momentaneamente sospesa la continuità del vissuto interiore. Il compulsivo è sempre dissociato dall’ambiente che lo circonda e sembra vivere di momento in momento attraverso la persistenza di atteggiamenti dipendenti, anche mascherati, fino all’adesione esagerata a cose concrete o a quei comportamenti autolesivi che caratterizzano le dipendenze patologiche.

La sindrome di dipendenza

L’idea di un concetto unificato di dipendenza o sindrome è dovuta alla necessità di tenere conto di alcuni dati ed evidenze empiriche già da tempo conosciuti. La somiglianza fenomenologica tra dipendenza da sostanze e alcuni comportamenti compulsivi, concepiti come dipendenze comportamentali, appare evidente da tempo e ha portato in modo quasi naturale a trasporre i modelli di cura nel trattamento delle dipendenze senza sostanza.

La perdita di controllo, il cosiddetto loss of control, rappresenta il craving ed è considerata la caratteristica essenziale della dipendenza, anche se il termine perdita può apparire eccessivo o prestarsi a diverse letture. Il controllo, piuttosto che essere concepibile in termini dicotomici, sembra, infatti, variare lungo un continuum temporale e sarebbe forse più corretto parlare di compromissione del controllo (impaired control), adottandone una concezione dimensionale.

In ogni caso le dipendenze sembrano condividere tutte la progressiva percezione di perdita della capacità di esercitare controllo sul comportamento dipendente, la sensazione di impossibilità di resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento, la compromissione della vita sociale, familiare e lavorativa.

A proposito di somiglianza fenomenologica, le caratteristiche condivise dalle tossicodipendenze e dalle dipendenze comportamentali, evidenziano: la dominanza, le alterazioni del tono dell’umore, la tolleranza e l’astinenza, il conflitto, la ricaduta.

Nella dipendenza l’attività domina il pensiero e l’atteggiamento della persona; l’eccitazione iniziale o la diminuzione della tensione legate all’intraprendere l’attività o all’assunzione della sostanza provocano cambiamenti del tono dell’umore; aumenta il bisogno di incrementare progressivamente la quantità di droga o l’attività per ottenere l’effetto desiderato e la persona prova malessere psichico e fisico quando interrompe o tenta di limitare il comportamento o l’uso della sostanza.

Trovano spazio anche il concetto di conflitto, inteso sia in termini interpersonali, tra il soggetto e l’ambiente, sia intrapsichici, legato all’ambivalenza verso il comportamento dipendente, e il concetto di ricaduta, la tendenza a riprendere l’attività o l’uso dopo averli interrotti.

Alle somiglianze fenomenologiche si accompagnano alcune interessanti evidenze empiriche. Accade frequentemente che pazienti in corso di riabilitazione passino da una dipendenza all’altra. Questo fenomeno, definito hopping, è concepito come una cross-dipendenza, è alla base del poliabuso e giustifica il fatto che un alcolista o un cocainomane possano nello stesso momento o in momenti diversi diventare giocatori patologici, suggerendo la presenza di una radice comune.

La non specificità dei trattamenti, sia farmacologici sia psicosociali, è un ulteriore dato a favore di una concezione unificata delle dipendenze. Spesso trattamenti farmacologici specifici per sostanze psicoattive riducono anche l’uso smodato di altre droghe o attività; diversi trattamenti psicosociali vengono usati in modo intercambiabile ed efficacemente per espressioni sia chimiche sia comportamentali della dipendenza.

In ambito bio-psicosociale lo stato di dipendenza patologica sembra diminuire le differenze di personalità tra le persone e rendere i dipendenti molto simili tra loro. Ciò significa che differenti espressioni della dipendenza danno origine a simili conseguenze, tra cui fenomeni di neuro-adattamento come tolleranza e astinenza, depressione, disonestà.

Un ulteriore aspetto che segnala la somiglianza, non solo fenomenologica, tra dipendenze e comportamentali riguarda i loro modelli di sviluppo nel tempo: sembra esserci una sorta di storia naturale nelle dipendenze che non cambia significativamente tra i diversi videogiochi, con un andamento di tipo cronico, caratterizzato da temporanee sospensioni e ricadute.

L’addiction si configura in questo modo come una sindrome di dipendenza con espressioni multiple e opportunistiche, con possibilità di lettura di fenomeni in modo differenziato. Il passaggio da una dipendenza all’altra potrebbe essere la conseguenza di un disturbo sottostante, depressione o disturbo della personalità, che nel corso del tempo, se non adeguatamente curato, trova diverse forme di espressione.

Del resto l’elevata comorbidità delle misure virtuali con altri interessi mentali sono un effetto della prospettiva categoriale adottata dai manuali diagnostici, che favorisce la rilevazione indipendente di più disturbi sia all’interno dello stesso asse sia su assi diversi.

Gli attuali sistemi diagnostici, che hanno il merito di facilitare la comunicazione tra esperti e di risultare affidabili, nel senso che osservatori diversi riescono a fare la stessa diagnosi sullo stesso paziente, sono basati sulla condivisione di criteri descrittivi che mettono in secondo piano la validità dei costrutti, più curata all’interno di un sistema diagnostico basato sull’eziologia.

Una mancata concezione unificata delle dipendenze potrebbe avere risentito di questo processo di frammentazione diagnostica, che non ha favorito la progettazione di studi di ampio spettro, capaci di mettere in relazione disturbi considerati distanti e appartenenti a diverse categorie diagnostiche.

L’era digitale: cambiamenti socioculturali

L’era digitale, virtuale e multimediale si è instaurata nelle nostre esistenze con le caratteristiche di un’evoluzione, piuttosto che di una rivoluzione. Se volessimo paragonarla alla famosa rivoluzione industriale inglese che, a partire dalla metà del Settecento, cambiò l’economia mondiale in modo radicale, è facile cogliere differenze sostanziali.

La realtà digitale è frutto di un processo evolutivo silenzioso, come silenziose sono tutte le evoluzioni, proprio perché legate alla naturalità dell’esistenza.

Quando ci accorgiamo che un figlio è cresciuto o che lo stato di un paziente è cambiato, sebbene ce lo potessimo aspettare, veniamo sempre colti di sorpresa, e, insieme, abbiamo la sensazione che qualcosa sia accaduto al di fuori della nostra consapevolezza.

Il concetto di rivoluzione, al contrario, è correlato all’idea di rottura di uno stato precedente e quindi di un cambiamento improvviso e non diluito nel tempo, che nella sua evidenza concreta non ha nulla di inconsapevole. È la stessa differenza che c’è tra un respiro e un colpo di tosse. Il primo è un atto fisiologico di cui non ci accorgiamo e segue una continuità, il secondo è patologico, fa accorgere di sé e rimanda all’idea di un’interruzione. Inoltre, la rivoluzione industriale è fondata sul concetto di macchina e di operare attraverso meccanismi concreti, mentre l’evoluzione digitale ha come fine ultimo la relazione tra esseri umani, veicolando informazioni primariamente per immagini e coinvolgendo allo stesso modo l’interpersonale e l’intrapsichico.

È evidente che qualsiasi supporto digitale è anch’esso una macchina, che si è strutturalmente evoluta nel senso dell’interattività e quindi in grado di incidere sui processi mentali e sull’identità di chi la usa. In altre parole, ogni forma di interattività è psicoattiva, proprio come i farmaci, perché si svolge all’interno di una forma di relazione che genera pensieri e opera trasformazioni, attraverso il vissuto delle emozioni. La comunicazione digitale è pervasiva ed è soprattutto una comunicazione per immagini; questo la rende simile alla comunicazione pre-verbale e rimanda a un’epoca della vita dove erano le immagini ancor prima delle parole a dotare di significato qualsiasi esperienza. La multimedialità è fatta di immagini interattive che ci informano silenziosamente. In una prospettiva diversa, il poliabuso di sostanze e i fenomeni di binge tra i giovani possono essere interpretati come un malcelato bisogno di perdersi, al di fuori di una realtà dove esserci significa essere online ed essere online significa essere in qualche modo visibile.

Ecco perché l’attenzione e talvolta la preoccupazione di genitori, educatori e medici, si sono rivolte a ragazzi sempre più giovani fino ad arrivare ai bambini, osservati mentre sono assorti di fronte a uno smartphone, un tablet, un computer, quasi impermeabili all’ambiente circostante.

La tecnologia touch-screen sembra adattarsi con naturalezza al pensiero magico e ai sentimenti di onnipotenza che fanno parte dell’infanzia. Per molti genitori è più facile compiacersi di una competenza così precoce, piuttosto che riflettere sul perché uno screen digitale possa catturare l’attenzione in modo tanto radicale.

Quando sentiamo dire che di fronte a uno gioco digitale un bambino non si sente e non si vede, allora significa che quel bambino, finché gioca, di fatto non c’è. Ciò rende il gaming digitale un’attività con proprietà dissociative, che nei casi in cui esista una predisposizione, possono incidere patologicamente su individui di qualsiasi età.

L’interattività rappresenta l’essenza della realtà multimediale che ci circonda e che ha moltiplicato gli stimoli a cui dobbiamo rispondere. Solo vent’anni fa aspetti importanti della crescita erano fondati sull’educazione ai media attraverso l’analisi dei contenuti che il piccolo schermo veicolava a fruitori passivi.

Per anni l’unica possibilità di interagire era confinata all’uso, anche compulsivo del telecomando, comunemente conosciuto come zapping. Nell’era digitale i bambini parlano con la tecnologia attraverso cartoni interattivi che rendono una trasmissione sempre più una relazione.

L’interattività è direttamente proporzionale al potenziale di intrattenimento, cioè al tempo trascorso davanti a uno schermo, e, all’interno di una realtà sempre più fatta di schermi, ha cambiato lo spettatore passivo in produttore attivo.

Non solo: in una società multitasking la comunicazione non è più solo duale ma può essere rivolta a molti, seguendo una logica inversa che favorisce più la centralità dei soggetti che quella dei mezzi di comunicazione. Se da una parte la moltiplicazione dei contatti determina l’impoverimento dei contenuti, dall’altra incarna il bisogno di essere sempre connessi e potenzialmente contattabili. Questo ha modificato il modo di vivere, così come il tempo e lo spazio compromettendo la capacità di attendere e quella di stare da soli, non più considerate semplici risorse.

L’impressione è che la possibilità di reperire continue fonti di eccitazione abbia preso il posto di qualcosa di strutturale che non c’è più, a cui anche noi immigrati digitali facciamo fatica a dare un valore.

Non è un caso che la tecnologia digitale sia stata inventata dagli immigrati prima di essere abitata dai nativi, e non è neanche un paradosso visto che abbiamo descritto l’era digitale come un fenomeno evolutivo. La distanza generazionale che sentiamo tanto ampia da sembrare una manifestazione di assenza è soprattutto una distanza di sguardi in un continuo alternarsi di schermi e stimoli interattivi, dove cambiano anche i linguaggi. Parole contratte, neologismi, pensieri brevi hanno preso il posto delle narrazioni distese e la comunicazione per immagini ha incrementato il bisogno di rappresentarsi rispetto al bisogno di raccontare.

Chat e social network sono lo sfondo di questo nuovo modo di stare al mondo e internet ne rappresenta la struttura portante. Nella realtà virtuale possiamo sentirci più sicuri, perché ciò che è esterno a noi diventa esplorabile e controllabile attraverso lo schermo, all’interno di uno spazio vivo in costante trasformazione dove le relazioni sono onnipresenti e quindi senza luogo.

Internet rappresenta un mezzo insostituibile nella nostra vita e molte attività quotidiane, che fino a pochi anni fa richiedevano tempo e spostamenti, oggi possono essere svolte semplicemente da casa con un semplice clic. Possiamo pagare le bollette, organizzare viaggi, leggere i quotidiani e mantenerci in contatto con gli altri senza uscire di casa, a volte guadagnando tempo, a volte perdendolo soltanto.

La realtà virtuale non si presta a momenti di attesa o di noia, che invece sono parte integrante del nostro vissuto quotidiano e, al contrario, ci offre continuamente nuovi stimoli verso cui rivolgere istinti e curiosità. Navigando siamo abituati a filtrare un grande numero di informazioni distribuendo le nostre capacità attentive su più piani contemporaneamente a discapito però del livello di attenzione posto in ogni singola attività. Ciò favorisce l’instaurarsi di processi cognitivi basati sull’immediatezza e sulla formazione di una conoscenza in continua ridefinizione che, se da una parte non diventa mai qualcosa di definitivamente acquisito, dall’altra pone il problema della selezione e dell’accertabilità delle fonti.

L’apprendimento scolare inizia a essere pensato su basi diverse, ma questo processo risente delle difficoltà specifiche di educatori e insegnanti a integrare contenuti del passato con nuove forme comunicative. Si tratta di una forma di integrazione difficile da realizzare, considerando che la tecnologia digitale ha inciso a tal punto sulla comunicazione da rendere gli aspetti formali veri e propri contenuti. Nell’era digitale le variabili spazio-tempo disegnano una cornice del reale diversa, dentro la quale anche la psicopatologia sembra cambiare.

Lo spazio virtuale

Lo spazio assume un significato in relazione al contesto in cui viene preso in esame. Quello sociale è la sede di tutti i processi di avvicinamento e di distanziamento tra i singoli individui e nella collettività. In precedenza si è spiegato ciò che tende a regolare le distanze tra singoli, ma con l’evoluzione crescente della tecnologia digitale, la comunicazione assume delle caratteristiche nuove. Internet permette di mettere in contatto più persone contemporaneamente, abbattendo il concetto di distanza. Con un clic possiamo essere all’interno di uno spazio virtuale, che non ha un luogo fisico in cui risiedere ma esiste realmente e cresce parallelamente al progresso che avanza, ovunque vi sia la possibilità di connettersi.

Nell’ultimo trentennio, abbiamo assistito al nascere e al diffondersi di un sistema innovativo che ha pian piano assunto le caratteristiche di un mondo nel mondo. Così come Platone, tramite l’allegoria della caverna, aveva posto l’accento sulla relatività del concetto di realtà, noi abbiamo assistito alla nascita, e stiamo vivendo, lo sviluppo di una nuova realtà, quella virtuale. È questo uno spazio nel quale possiamo decidere di entrare, parzialmente privi del nostro corpo, e all’interno del quale però viviamo, ci informiamo e comunichiamo. Il concreto vi perde di valore; allo stesso modo in cui è esclusa la nostra persona, viene meno anche la fisicità dell’altro e l’ambiente non ha più le sue caratteristiche. Se in passato, per parlare con un amico che abitava in un’altra città, era necessario un viaggio per annullare le distanze, adesso è sufficiente uno smartphone e queste lontananze vengono neutralizzate all’istante. Lo spazio che divide due persone non costituisce più un ostacolo comunicativo. Al contrario, ciò che viene perso è la funzione comunicativa della sensorialità, che solo un incontro autentico dal vivo può generare. Tale spazio interpersonale è il luogo del linguaggio non verbale, e in assenza del corpo concreto smette di esistere. Il sempre maggiore utilizzo di apparecchiature elettroniche, garantisce un facile accesso a questo mondo alternativo entro il quale la vista e l’udito rappresentano i mezzi principalmente utilizzati. Il nostro corpo è quindi presente in modo parziale, anche quando decidiamo di comunicare tramite webcam; la nostra presenza è delegata alla nostra immagine e solo ad alcuni dei nostri sensi. È impossibile toccare l’altro oppure sentirne l’odore. Allo stesso tempo possiamo essere virtualmente ovunque e in tempo reale, osservando di più ma forse immaginando di meno. Lo spazio si dilata senza limiti, le possibilità di muoversi, di conoscere, di vedere si amplificano. La spinta è la stessa di chi decide di avventurarsi nell’ignoto. Così appena ci connettiamo cominciamo a cliccare, spostandoci virtualmente di luogo in luogo, seguendo ogni genere di istinto curioso.

Concettualmente ci stiamo riferendo, quindi, a un nuovo mondo, il cyberspazio, simile ma differente e comunque in reciproco scambio con le altre dimensioni dello spazio, prima analizzate, quella fisica, quella mentale e quella sociale. Con questo termine che deriva dal greco kybernàn e che significa navigare, si intende lo spazio creato dai computer quando si connettono tra loro. Spesso viene utilizzato come sinonimo di internet, anche se con questo termine non si indica una tecnologia fatta di oggetti materialmente esistenti, ma il luogo immateriale dove viaggiano e risiedono metaforicamente le informazioni. Al suo interno esiste possibilità d’azione, di provare un sentimento di abitabilità, di costruire una comunità e di organizzare il tempo. Il cyberspazio presenta delle caratteristiche reali ma non concrete, che definiamo digitali. La possibilità di navigare tra differenti siti è paragonabile, dal punto di vista dell’informazione, a quando per esempio ci troviamo in libreria o in biblioteca, e decidiamo di prendere quel libro o quel giornale: nonostante venga a mancare la dimensione concreta della cosa, la sua replica virtuale adempie completamente alle funzioni dell’originale, talvolta estendendole. Nei videogiochi, con il progredire della tecnologia, abbiamo assistito a un sempre più sofisticato sistema di sviluppo di immagini tridimensionali, di figure che realmente occupano uno spazio, tanto da fare ombra. All’interno dello spazio dei giochi possono accedere più individui simultaneamente, rappresentati figurativamente come avatar. Anche qui un individuo è immerso nella realtà virtuale, in un luogo dove non solo esiste, sotto forma di questo avatar, ma agisce, collabora, lotta, crea strategie e soprattutto comunica. È questo un esempio di parziale abitabilità dello spazio virtuale. Non a caso in Second Life, uno dei videogiochi più frequentati dell’ultimo decennio, i giocatori vengono chiamati residenti. Ma il gioco è anche un mezzo tramite il quale si dà spazio all’immaginazione. L’avatar può rappresentare ciò che noi immaginiamo di essere o in talune situazioni ciò che vorremmo essere, sempre svincolati e alleggeriti dalla realtà. È questo uno spazio in cui il singolo può decidere di esistere nelle modalità e nelle sembianze desiderate, o meglio idealizzate, spesso con caratteristiche troppo distanti da quelle realmente possedute. I modi e le sembianze con cui interagiamo in questa dimensione danno forma a un’identità digitale che diventa una personalità alternativa, che non ha nulla di virtuale. L’identità digitale rappresenta in questo senso un’evoluzione ulteriore, ponendosi al di là della dicotomia concreto-virtuale. Il progresso tecnologico è fortemente indirizzato a sviluppare nuovi strumenti volti a rendere sempre più personale la propria esperienza all’interno della cyberdimension.

Se dall’identità digitale deriva una personalità alternativa, si assiste allo spostamento del senso di appartenenza dalla comunità reale a quella virtuale. Ciò comporta sempre un certo livello di patologia, a volte poco evidente perché sommersa dai processi trasformativi tipici dell’adolescenza. Il cyberspazio, come la piazza in altri tempi, rappresenta il luogo di intrattenimento di relazioni senza luogo, dettato dal bisogno dell’individuo di condividere e comunicare. La distanza non si evidenzia più come manifestazione di vicinanza o lontananza, ma di connessione o non connessione: si passa da una connotazione metrica a una relazionale regolata dall’accessibilità. Non esiste la fisicità e viene meno l’atto del misurare geometricamente inteso, a favore di una misurazione delle relazioni. Le distanze sono regolate dalla comunicazione che necessita appunto di una connessione. Per questo può essere più vicino un amico con cui chattiamo, piuttosto che un familiare nella stanza accanto.

Il tempo percepito in rete

È un tempo multiforme perché può essere percepito e utilizzato consapevolmente, o dissociato dalla nostra coscienza e quindi, al contrario, trascorrere inconsapevolmente.

Nel primo caso sembra avere un andamento lineare, nel secondo circolare. Il tempo lineare si verifica tutte le volte che usiamo internet come veicolo di informazioni, quando svolgiamo attività sotto il controllo della coscienza, della logica e della forza di volontà. Accade, per esempio, quando studiamo, scriviamo o controlliamo la posta elettronica, e in questi casi, infatti, diventa facile rendersi conto del tempo che passa, perché l’impegno e la fatica connessa sono misurabili nel tempo e scandiscono l’alternanza tra fasi di lavoro e momenti di riposo.

Anche il corpo, dunque, che è la parte di noi che rimane ancorata all’ambiente e alla realtà, è investito e coinvolto in ciò che facciamo, e questo consente durante lo svolgimento di un compito di rimanere con i piedi per terra.

Il tempo circolare, invece, si verifica quando internet è utilizzato come veicolo di emozioni. Questo accade tutte le volte che giochiamo online o chattiamo su un social network, oppure ascoltiamo una canzone o guardiamo un video che genera dentro di noi immagini, ricordi e pensieri. Quando svolgiamo queste attività siamo più assorti che concentrati e perdiamo progressivamente la percezione del tempo. Il tempo circolare tende a trascorrere al di fuori della nostra consapevolezza e al di là di impegno, fatica e stress fisico. In questo senso è dissociato dalla realtà proprio perché in esso i processi mentali prevalgono sui corrispettivi somatici e questo, a differenza del tempo lineare, equipara il tempo circolare a quei momenti di distrazione o ricreazione che quotidianamente tutti viviamo e che, allo stesso modo, possono essere l’espressione di un sano divertimento o la manifestazione di una disarmonia.

L’avvento di internet o, più in generale, della tecnologia digitale nella nostra quotidianità ha trasformato per primi i tempi di apprendimento, mutando il modo di catalogazione e fruizione dei contenuti.

L’uomo dell’era analogica ha messo in atto un processo di alfabetizzazione del sapere e degli eventi, strutturandoli secondo una stretta divisione tematica e ricostruendoli in un preciso ordine temporale.

L’era digitale sovverte questo tipo di organizzazione permettendo un’estrapolazione personale dei contenuti, svincolata da un ordine precostituito e in una dimensione atemporale: l’intera massa mediatica del web può essere considerata, ed effettivamente lo è, un unico, immenso ipertesto, in cui non esiste mai una versione definitiva, ma un continuo aggiornamento.

L’universo web-mediato si colloca in un perpetuo adesso globalizzato, in cui il presente trascende ogni altra dimensione temporale. Una sua caratteristica è l’annullamento dello spazio fisico e l’incremento dello spazio prossemico ossia della porzione di spazio che entra nella sfera della nostra esperienza. Ciò ha avuto delle conseguenze immediate anche sul nostro rapporto con il tempo La digitalizzazione della realtà e l’utilizzo di questi nuovi strumenti ha permesso un risparmio di tempo reale, svincolandoci da alcuni limiti. È questo il caso dell’home banking, del commercio elettronico, della burocrazia online. Paradossalmente, nonostante questo guadagno di tempo, si assiste a una costante sensazione di “non avere tempo”, dovuta probabilmente a un aumento delle possibilità di interazione che il mezzo ci offre.

Incrementandosi potenzialmente le attività da svolgere, aumenta anche il potenziale d’azione, e questo rende il tempo più intenso, come fosse sovrapposto anziché vissuto longitudinalmente, e inoltre compromette la capacità di attesa e favorisce un atteggiamento compulsivo.

Le modifiche apportate al linguaggio, negli ultimi anni, offrono un esempio di questo processo. Su internet le regole della comunicazione sono assai cambiate rispetto a quello che, cinquant’anni fa come ora, viene insegnato nelle scuole. Nel preparare un elaborato destinato al web, saltano tutte le regole di composizione classiche: è controproducente iniziare con un’introduzione o con lunghe descrizioni. Ciò che serve è arrivare immediatamente al punto di interesse: chi scrive sa che chi legge avrà a disposizione un tempo molto limitato, in genere non più di una decina di secondi, per giudicare se soffermarsi o se indirizzare la propria attenzione su un link alternativo, che il motore di ricerca ha selezionato e indicato come correlato.

In una sola parola, è proprio il caso di dirlo, la comunicazione si è fatta essenziale; pensiamo agli acronimi, in voga negli ultimi anni. La velocità delle operazioni e l’azzeramento delle attese sono elementi peculiari della tecnologia digitale, alla base delle attività multitasking, ossia la possibilità di svolgere più azioni contemporaneamente. La nostra organizzazione culturale, finora, è stata fondata sulla monotematicità: basti pensare che la maggior parte dei libri è strutturata su di un unico argomento, sviluppato secondo precisi schemi logici o cronologici.

Nell’interazione con supporti digitali sempre più potenti, la nostra attenzione è distribuita e focalizzata secondo modalità che abbiamo appena iniziato a esplorare, ipertesti dove il rischio diventa quello di un affaccendarsi inoperoso, in cui facciamo fatica a seguire il continuo flusso di informazioni cui siamo esposti.

Di solito le attività multitasking sono vissute come indispensabili nell’hic et nunc della nostra vita, ma quasi mai il tempo che dedichiamo loro è proporzionale all’effettiva concretizzazione dello scopo che ci eravamo prefissati. L’idea che le attività multitasking rappresentino una possibilità per ottimizzare i tempi della nostra vita è valida quanto l’idea che, su un piano concreto, siano una perdita di tempo.

L’abbattimento dei limiti spaziali consente una sorta di ubiquità virtuale, ma non ha modificato i vincoli temporali che normalmente ci costringono: anche nel cyberspazio non possiamo estendere o comprimere il tempo a nostra disposizione.

Chi effettua una ricerca su Google in pochi istanti avrà a disposizione migliaia di risultati, ma, rispetto all’immensa quantità di dati, non disporrà del tempo sufficiente necessario per prenderli in considerazione. Lo stesso accade nel campo delle relazioni personali: nella vita reale, qualsiasi rapporto viene regolato da un insieme di interazioni, ritmi e pause necessari alla personificazione e all’elaborazione dei vissuti.

In rete è possibile avere un maggior numero di contatti simultaneamente e quindi ridurre i tempi fisiologici di elaborazione e modificazione del comportamento che appare qui mediato più dall’istintualità che dalla riflessione. Si ricevono numerosi input e vengono date continue risposte, viene meno il tempo del riposo necessario a pensare creativamente. Sembra ridursi quell’attività mentale preposta ad attribuire caratteristiche qualitative al tempo: dare un senso al tempo, il senso del proprio tempo.

Qui l’attenzione è posta sulle caratteristiche qualitative che il tempo assume quando si sta su internet. Al ritmo serrato, preciso e puntuale che caratterizza l’organizzazione del quotidiano si contrappone, intersecato e in continuo divenire con quest’ultimo, un tempo che appare relativo, non valido per tutti, individuale. È un tempo cariologico, dal greco kairos, delle esigenze personali; non è misurabile perché è un tempo che ha un significato soggettivo e un contesto autistico. Aristotele ne parla in termini di tempo in cui produrre delle azioni il cui fine è in sé e non al di fuori. Pensiamo al tempo che ci concediamo quando senza esserci prefissi una meta o senza avere in mente scopi precisi ci approcciamo a internet nell’intento di gratificare bisogni. È un tempo circolare, in apparenza afinalistico, ma in realtà nelle sue funzioni è complementare al tempo condiviso, quello che al contrario passiamo con gli altri.

Nonostante la comunicazione digitale abbia moltiplicato le occasioni di incontro, la solitudine rimane un bisogno, come il diritto che ognuno di noi ha di trascorrere il proprio tempo svincolandolo dal tempo convenzionale, così come accade nella vita in momenti di profondo coinvolgimento emotivo, quando non ci accorgiamo che è già arrivata l’alba.

La crescita e il corpo virtuale

Viviamo intensamente il tempo, ci contattiamo di più ma ci incontriamo di meno. I giovani hanno maggiori opportunità anche se appaiono iperstimolati. Lo stesso accade per gli adolescenti, che vivono in modo serrato anche le attività ricreative: dallo sport alla musica, tutto appare scandito per essere più agito che pensato.

Diminuisce il sentimento di intimità e spesso aumenta il senso di solitudine, così come crescono le possibilità di conoscenza e si riducono le occasioni di vera complicità. Di questi tempi un allenatore, un maestro o anche un animatore di una festa può essere una figura particolarmente gradita, perché con lui diventa possibile fare le cose e stabilire tempi, luoghi, oggetti per gestire bene il tempo di uno svago che, pur sembrando creativo, risponde più alle esigenze immediate di vincere la noia che a un’attività autenticamente condivisa. Avere la possibilità di scegliere tra tante opzioni diverse, esattamente come capita in rete, illude di avere un’ampia autonomia o una ricca fantasia, ma di fatto stimola soprattutto la capacità di scegliere tra soluzioni inventate da altri, ma mai da noi. Si tratta di un’operazione mentale diversa e di un meccanismo inverso. I desideri sono identificati in rapporto alle opzioni che vengono offerte, al contrario di quanto accadeva in passato quando questi rappresentavano il punto di partenza di un processo che mirava alla loro realizzazione. Oggi una soluzione non si crea, ma si sceglie, travalicando a volte vincoli e compromessi con la realtà, che prima aiutavano a delinearne i confini. Ecco allora che sassi, carta, legno, plastica si trasformavano in piste un po’ storte, magari disegnate su un cartone o con il gesso, su cui far correre tappi, biglie o macchinine, di certo non belle e realistiche come quelle che può proporre un videogioco, ma elaborate con personale fantasia. In questo senso l’aiuto di un amico più abile di noi suscitava invidia, gratitudine, emulazione, ma sempre all’interno di un’interazione reale, emotivamente forte, che frustrava o compiaceva, ma faceva crescere e sperimentare le proprie capacità e di conseguenza la propria autonomia.

A questo va aggiunto il carico emotivo generato dalle aspettative, espresse o implicite, che si creano intorno a queste attività in cui bisogna in qualche modo rendere conto di un risultato ai genitori piuttosto che all’educatore, agevolando il mantenimento di limiti e confini. Oggi sembra essere in atto uno squilibrio tra la possibilità di fare sempre più esperienze e acquisire sempre più conoscenze e la crescente difficoltà ad acquisire le corrispettive competenze emotive.

Quando durante l’adolescenza un ragazzo inizia a muoversi autonomamente, iniziano a sorgere le difficoltà: il desiderio di libertà non si accompagna alla capacità di sostenere la responsabilità di muoversi in autonomia, non per amore di solitudine ma per mancanza di esperienze condivise. Una parte di questi problemi è già nota e forse non è nemmeno deleteria, ma funzionale al processo di maturazione.

L’avvento dell’era digitale ha generato cambiamenti profondi anche dentro gli adulti, non tanto modificandone le istanze profonde, quanto cambiando il quadro di riferimento in cui queste prendono forma, con l’esasperazione di alcuni aspetti e la scomparsa di altri, ma presentando un quadro di difficile lettura.

Allo stesso modo anche la famiglia ha subito trasformazioni importanti, ma questo non ne fa venir meno la natura di ambiente privilegiato per vivere rapporti umani significativi, profondi e duraturi; anzi, rispetto alla funzione educativa notiamo come internet con tutte le sue potenzialità abbia allargato a dismisura l’orizzonte degli adolescenti. Questo, invece di sostituire i genitori nei loro compiti, rende ancora più forte il desiderio di una guida sicura per imparare ad affrontare un ambiente che si è fatto talmente ampio da non riuscire a coglierne i confini.

L’identità di ciascun individuo è una scoperta che si palesa procedendo per piccoli passi all’interno del gruppo di persone che di questo individuo si prende cura e con cui egli interagisce. L’individuazione e la costituzione di un’identità definita e separata procede per impercettibili eppur sempre magici progressi, in cui le nuove abilità di bambino si manifestano al resto del mondo. Dal momento in cui egli nasce, comincia un cammino fatto di continue sfide che lo porteranno nel tempo all’acquisizione di un senso di sé unitario e solido, capace di far fronte alle molteplici sollecitazioni interne ed esterne.

Sono a tutti noti i pianti di un bambino il primo giorno di scuola, quando i suoi genitori, facendosi coraggio, si convincono ad affidarlo alle cure dei maestri dell’asilo, così come è nota l’eccitazione di altri, ormai ragazzini, quando finalmente giungono nella scuola dei grandi, di quelli guardati fino a quel momento solo da lontano, perché troppo distanti e solerti nel cercare di differenziarsi da quelli più piccoli. Eppure a volte c’è solo un anno di differenza!

Com’è possibile che un bambino sia stato fino al giorno prima totalmente dipendente dai genitori e il giorno dopo cominci a esercitare il proprio diritto di dissentire, tra lo stupore di questi, da un lato felici per il manifestarsi della personalità del loro figlio, ma al contempo nostalgicamente consapevoli che sta cominciando ad andare da solo.

Nella crescita di un bambino, momenti simili a questo si verificano più e più volte con ripercussioni familiari di variabile intensità. Ma quando l’adolescenza fa capolino nelle famiglie e soprattutto nella vita di un ragazzo, tutte le precedenti crisi grandi e piccole appaiono, pur non essendolo, poco più di piccoli cambiamenti.

Liti furibonde tra genitori e figli, incomprensioni, se non addirittura totale incomunicabilità, dovute talvolta ad ampi scarti generazionali, si manifestano più frequentemente proprio durante questo periodo della vita. L’adolescente, ancora combattuto tra un bisogno di dipendenza e il desiderio di autonomia, non risparmia ai familiari la propria confusione e spesso il senso di impotenza e frustrazione che può insorgere nella gestione di tale conflitto.

Non meno preoccupante per ogni genitore è l’impulsività che, per fortuna in quantità non sempre eccessive, alberga in ogni adolescente. L’adolescenza rappresenta una crisi vera e propria per qualsiasi individuo, crisi che si fa più marcata in quei momenti storici in cui il divario tra le generazioni a confronto è maggiore; questo perché anche le modalità di comunicazione si trasformano, a volte fino al punto di essere incomprensibili anche per chi fino al momento prima era un punto di riferimento.

Le famiglie in questa fase vengono messe a dura prova: capacità di creare nuovi equilibri interni e di adeguarsi ai cambiamenti dell’adolescente diventano qualità molto preziose in questa fase, poiché forniscono al ragazzo quel sostegno di cui necessita.

Quando si parla di crisi nel linguaggio corrente si intende un evento negativo. Nel caso della crescita di un individuo invece le crisi sono eventi auspicabili poiché è solo attraverso queste che può compiersi l’evoluzione.

Intendiamo per critici quei momenti in cui in un individuo emergono aspetti nuovi che dovrà integrare nella propria personalità e dai quali quest’ultima verrà inevitabilmente modificata. È immaginabile quanta fatica mentale comporti ogni crisi e a maggior ragione quella adolescenziale, poiché questa nuova tappa evolutiva prevede una revisione di tutta la personalità preesistente. Vecchi conflitti irrisolti e nuovi aspetti non ancora fronteggiabili tormentano il neo- adolescente che si trova a sorreggere spesso in solitudine questi fardelli.

Il senso di solitudine, in vario grado, è una costante a quest’età, poiché è spesso l’effetto del tentativo di sottrarsi allo strapotere degli adulti. I bambini rimarcano continuamente il diritto a fare da soli e spesso, quando sottolineano questo loro diritto con maggiore forza, è proprio il momento in cui maggiormente sentono il peso dell’autonomia.

Il conflitto, infatti, non è solo con gli adulti e quindi con alcuni aspetti del mondo esterno, ma è soprattutto interno, tra il bisogno di autonomia da un lato e di dipendenza dall’altro; dunque l’adolescente di fatto lotta contro tutto ciò che lo riporta a una condizione di dipendenza e spesso anche contro i suoi stessi bisogni.

Quello che però mette davvero in crisi l’adolescente è tutto quell’insieme di trasformazioni dal quale non può esimersi se non a prezzo di una vera e propria frattura con la realtà. Il corpo, da sempre portavoce di bisogni primari, ancora una volta scandisce i tempi della crescita: fin dalla nascita è il corpo che, vincolando la mente alla realtà, e dunque a quelle che sono le necessità contingenti, segna le tappe dell’evoluzione. Se in principio il funzionamento mentale segue quello corporeo e da questo si differenzia, nel tempo tra i due si instaura un rapporto dialettico che permette da un lato l’ancoraggio alla realtà, dall’altro la possibilità di svincolarsi dal concreto, in un continuo scambio e contenimento reciproco.

La realtà fisica preannuncia una modifica: si comincia a prendere coscienza non solo della propria individualità, ma anche di quell’identità della controparte fino allora sconosciuta.

Se fino a quel momento qualsiasi pensiero poteva trovare spazio nella fantasia, durante l’adolescenza l’individuo prende coscienza di poterlo concretizzare nell’azione; tale evento niente affatto scevro di preoccupazioni, pone l’adolescente di fronte alla difficoltà di gestire queste nuove sensazioni, fino a quel momento misconosciute.

Queste difficoltà non riguardano solo l’identità corporale, ma anche la propria ipertensione: un teenager sa benissimo di non poter fronteggiare fisicamente un adulto, si accorge che invece non solo è in grado di opporsi, ma a volte anche di sopraffare le persone più grandi di lui. Tutto questo spaventa chi, in realtà non ancora adulto, necessita ancora di un contenimento esterno.

Il vero dramma è però ancor più profondo: tutti gli elementi già menzionati si inseriscono in un cambiamento molto più complesso che è l’uscita da un ideale di perfezione proprio dell’età infantile. La scoperta che non si è perfetti, così come non lo sono i propri genitori, determina un senso di precarietà profondo soprattutto nei casi in cui molto della personalità precedente alla crisi adolescenziale si basava su un assetto narcisistico.

Anche il prendere coscienza della propria identità sessuale rientra narcisisticamente nella perdita di una perfezione fantasticata: essere uomo o donna prevede la rinuncia a qualità appartenenti al sesso opposto. La mente di un minorenne, invece, vorrebbe per sua natura poter essere e fare tutto ciò che fantastica. Un bambino non conosce il limite, se non attraverso quelli che sono i confini che il genitore stabilisce; l’adolescente invece prova continuamente a sfidare questi limiti proprio nel tentativo di stabilirne di propri e di testare fino a che punto si può arrivare.

In queste sperimentazioni spesso, pur di salvaguardare la propria presunta perfezione, finisce per incolpare il mondo intero di errori e brutture: è più facile dare colpe che prendere coscienza di eventuali inadeguatezze.

Diventa facile a questo punto comprendere come mai gli adolescenti siano più facilmente esposti a comportamenti considerati in generale a rischio. Date le enormi difficoltà che questo periodo della vita comporta, tutto ciò che possa in qualche modo aumentare la sensazione di controllo di questi aspetti diventa automaticamente un possibile oggetto di dipendenza.

Non solo, ma più spesso potrebbe attuare comportamenti tali da permettergli un mantenimento dello stato precedente alla crisi. È ovvio che, nonostante una crisi adolescenziale ci sia per tutti, non tutti loro presenteranno comportamenti psico-patologicamente rilevanti. Questo perché per fortuna molti possono contare su una struttura di personalità capace di tollerare le trasformazioni che questa fase di crescita prevede.

Personalità invece più fragili, in cui i tratti narcisistici sono preponderanti o che hanno già per diversi motivi difficoltà nella strutturazione dell’identità, non solo faticano maggiormente per mantenere una stabilità, ma potrebbero mettere in atto difensivamente comportamenti reattivi con il fine inconsapevole di sfidare ciò che temono, o di evitarlo.

L’immagine virtuale

In questo panorama confuso di nuove sensazioni il mondo virtuale fornisce all’adolescente, soprattutto a quello in difficoltà, una serie di risorse e possibilità di espressione che nella vita di tutti i giorni sarebbe troppo faticoso sperimentare.

Di fatto il mondo virtuale mediato dal web consente relazioni parziali, cioè relazioni che non coinvolgono la persona nella sua interezza, ma soltanto determinati canali sensoriali, a discapito di altri. Di conseguenza l’espressione di certi aspetti sarà favorita, rispetto al bisogno di nascondere ciò che non è possibile presentare.

Tutto questo diventa utile soprattutto in quei casi in cui un adolescente, per vari motivi, non riesce a fronteggiare il confronto diretto con l’altro. Proprio in questi casi l’utilizzo di uno schermo digitale si configura come un possibile mezzo d’aiuto per riuscire a contattare l’altro, in maniera però protetta. Altre volte ancora, internet, soprattutto con i social network e i giochi di ruolo, fornisce identità idealizzate o addirittura fittizie con lo scopo di rassicurare gli adolescenti più fragili travolti dai propri conflitti. Il monitor infatti fornisce un’effettiva possibilità di schermarsi rispetto a tutti quegli aspetti che in una relazione convenzionale potrebbero essere difficili da gestire. Di fatto l’esclusione del corpo dalle relazioni web-mediate estromette una molteplicità di spunti emotivi e affetti che il corpo in sé media.

Qualsiasi emozione provata normalmente è caratterizzata da un insieme di cambiamenti che sono prevalentemente fisici e ogni individuo prova una serie di sensazioni quando il corpo di un’altra persona si trova a una distanza percepita come insufficiente.

Il corpo media e parallelamente genera emozioni: non è qualcosa di secondario rispetto all’emotività, ma piuttosto un attore partecipe e attivo negli scambi con l’altro. Nelle relazioni digitali che prediligono un terreno di scambio virtuale, molto di quella parte di emotività che è mediata dal corpo viene perso, così come molti aspetti che riguardano la reciprocità e quindi il continuo riadattamento emotivo e fisico che la presenza dell’altro suscita.

È comprensibile dunque come l’uso del virtuale possa rispondere a una vasta gamma di esigenze interne: dal timore del contatto con l’altro e il bisogno di isolamento, alla possibilità di sperimentare in maniera protetta aspetti insostenibili nel mondo reale. In particolar modo nell’adolescenza il virtuale offre possibilità di espressione di aspetti nuovi e difficili da gestire.

Ma se già internet per sua stessa natura permette l’esclusione della fisicità, perché non dovrebbe approfittarne un adolescente che con il proprio corpo comincia a fare i conti e non sempre in maniera piacevole? E se questo corpo veicola limitatezza, senso di inadeguatezza, perdita di una perfezione originaria a favore di una differenziazione non sempre facile, allora forse il web può offrire la possibilità di contrastare tutto questo.

Non a caso le immagini di sé stesso che ciascuno espone in rete mettono in risalto tutte quelle qualità che appaiono migliori agli occhi di un adolescente insicuro, che procederà quindi dal rendersi più bello, a ipersessualizzare la propria immagine, fino a proporsi secondo modelli vincenti per cultura e per stereotipi personali. Tutto questo è in sintonia proprio con quell’ideale di perfezione con il quale l’adolescente è costretto a fare i conti.

Nel corso della navigazione sui siti è possibile esprimere di sé solo ciò che ciascuno di noi reputa accettabile, tralasciando o addirittura negando quello che si ripudia o con il quale non si riesce a convivere. Il corpo, spesso malvissuto o ripudiato dall’adolescente, non solo perché fonte di bisogni di dipendenza, ma anche perché traditore nel suo non corrispondere a quell’ideale di perfezione tanto amato, ritrova una collocazione ideale proprio qui, dove con estrema facilità può essere riadattato alle esigenze del momento.

In rete il corpo può scomparire nei suoi tratti più vicini alla realtà e magari riproporsi con caratteristiche fantastiche, come accade in alcune parti recitate a ruolo; può peraltro essere privato dei tratti meno piacevoli e mantenere invece solo quelle caratteristiche accettabili. È da questa dinamica che nascono le esposizioni grandiose di foto personali, di immagini perfette, seppur sempre virtuali.

È chiaro che quanto più il corpo viene trasformato, tanto più massiccia è l’entità del conflitto, che dunque può collocarsi a un livello più evoluto, coinvolgendo solo alcuni aspetti della personalità, o a un livello più profondo, fino a creare una vera e propria frattura con la realtà. In generale l’entità della trasformazione degli aspetti che vengono rifiutati, se non addirittura rinnegati, è quindi commisurata all’entità del disagio che tali aspetti riescono a generare nell’individuo che li rifiuta; questi vengono percepiti come un qualcosa di pericoloso e destrutturante, perché ogni aspetto che viene rinnegato tende a riproporsi in chiave persecutoria complicando le possibilità di risoluzione. Tale dinamica non risparmia nemmeno quegli aspetti che vengono relegati nel virtuale: sia che ci si abbellisca a tal punto da non essere a volte più riconoscibili, sia che ci si mostri magari con caratteristiche dell’altro sesso, il ritorno alla realtà diventa sempre frustrante e difficoltoso: d’altra parte non si può reggere il confronto con un personaggio così idealizzato!

E quando questi personaggi cominciano in un certo senso a vivere di vita propria, come avviene in alcuni giochi di ruolo, o quando la frequentazione di social network supera di gran lunga gli incontri di persona, il divario con la realtà rischia di diventare insostenibile e i processi di identificazione diventano costanti, in una spirale che si chiude sempre più nell’idealizzazione di sé stessi.

Tale idealizzazione, più che piacevole soprattutto per un adolescente, rischia di rendere enorme il divario tra aspetti gratificanti e aspetti frustranti della propria realtà e quindi di non facilitare affatto l’integrazione della personalità, compito proprio di questo periodo di vita.

Infatti, molto spesso ciò che nel web trova asilo, nel tempo amplia il proprio spazio fino a prendere connotazioni all’inizio non previste. Pensiamo ai casi in cui un adolescente, nella sua normale ricerca di una maggiore definizione in senso maschile o femminile, crea un profilo del sesso opposto: se in chat si imbattesse in situazioni non del tutto chiare, come farà a tornare indietro, proprio lui che già aveva difficoltà a comprendere che cosa significasse essere uomo o donna? Tutto ciò, rendendo ancora più difficile un’integrazione dei vari aspetti della personalità, favorirebbe il mantenimento di una non integrazione dell’individuo.

Non di secondaria importanza è il fatto che proprio in questo periodo della vita vengono introiettate regole e senso morale. Queste norme, fondamentali per la futura costituzione dell’individuo, ma non ancora integrate anch’esse, rischiano in questi casi di ostacolare l’accettazione di alcuni aspetti della confusione propria di questo periodo, costringendo il giovane in difficoltà a chiudersi sempre più in sé stesso, nel timore del giudizio e del pregiudizio sociale. Mentre nella realtà aspetti scissi e idealizzati vengono ripetutamente messi alla prova attraverso un confronto reale, nel web questi non vengono più esposti a smentite. Al contrario, il virtuale fornisce uno spazio di espressione che il reale difficilmente potrebbe offrire e permette di preservare il proprio ideale dell’Io da un non controllabile impatto con la realtà; allo stesso modo lo estremizza a tal punto da renderne difficile la messa in discussione, se non a prezzo di una grave delusione. L’immagine di un’identità ideale, non più funzionale all’integrazione di un modello al quale conformarsi, che viene mitigato dall’introiezione di adulti positivi e di un adeguato senso morale, si ritrova alla mercé di un pensiero onnipotente e di un narcisismo infantile, che ora difensivamente impediscono l’integrazione.

I giochi online e psicopatologia associata

Il gioco non è soltanto un piacevole passatempo appannaggio esclusivo delle fasce più giovani di età, ma un’attività libera sempre presente e importante, anche se in forme e modalità differenti, in tutto l’arco della vita dell’uomo.

Mentre giochiamo, a tutte le età, scarichiamo le nostre tensioni quotidiane canalizzandole in un’attività entusiasmante e creativa che coinvolge in maniera completa il corpo e la mente. Il gioco è un bisogno che ha la funzione di sospendere le attività cognitive della nostra mente, quelle finalizzate al raggiungimento di uno scopo nell’ambito, per esempio, del nostro lavoro. Di solito è radicato nell’immaginazione e nella fantasia, e può risultare creativo o compulsivo in relazione al livello di condivisione con gli altri e all’intensità dell’eccitazione che innesca.

Il gioco è un’attività libera ma non per questo confusa; per poter giocare sono necessari un tempo definito dedicato e uno spazio adatto, oltre alla presenza di regole condivise dai partecipanti. Pertanto non è esclusivamente un momento che potremmo definire catartico, di benessere individuale, ma un’attività sociale articolata che consente di far emergere le proprie emozioni e di condividerle all’interno di un gruppo di pari.

La rivoluzione tecnologica e in particolare l’esplosione del fenomeno dei videogiochi hanno fatto emergere negli ultimi anni un nuovo terreno di applicazione del giocare, legato al mondo virtuale, che offre sempre più numerose possibilità di intrattenimento, proponendo parallelamente un nuovo modo di intendere questa irrinunciabile attività.

Questi intrattenimenti rappresentano, in particolare per la nuova generazione, il frutto più accattivante della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo e in pochi anni sono divenuti parte integrante delle esperienze di gioco e condivisione dei più giovani. Hanno una capacità di attrazione e di interattività tale da catturare totalmente l’interesse del giocatore, così che se osserviamo una persona video-giocare da un punto di vista esterno ci appare isolato dalla realtà circostante e dissociato nella percezione convenzionale di tempo e spazio.

La tecnologia in cui la nostra società è immersa ha migliorato sotto molti punti di vista il nostro benessere e da un punto di vista soggettivo sta inevitabilmente contribuendo a cambiare il nostro modo di pensare e di relazionarci con il mondo.

I più coinvolti in questa evoluzione sono gli adolescenti, grazie anche alla maggiore plasticità sinaptica cerebrale e a un’autentica naturalezza nell’interazione con la tecnologia digitale, in particolare i videogame.

Le riflessioni a riguardo rimangono aperte sulla considerazione che la tecnologia stessa, in costante divenire, cambia anno dopo anno. Ideati per il divertimento, i videogiochi sono stati impiegati con successo anche all’interno dei percorsi riabilitativi di patologie come i disturbi dell’apprendimento, la mobilitazione degli arti e la dislessia, favorendo la cura attraverso il loro utilizzo. Essi sono in grado di stimolare il circuito cerebrale del piacere e della ricompensa nel giocatore, e per questo possono essere dei validi insegnanti per accrescere le proprie abilità non solo all’interno del gioco. In questo senso il progresso della tecnologia nell’ultima generazione di consolle, lascia immaginare nuovi orizzonti di apprendimento e interazione fra uomo e videogame. È stato dimostrato che giocando servendosi dell’azione rincorri e del genere sparatutto, in cui viene richiesto di identificare rapidamente i nemici ed evitare di essere colpiti, risultano aumentate le capacità di processare e discriminare visivamente più oggetti in breve tempo. Tali abilità tuttavia resterebbero limitate solamente in ambito virtuale, nell’interfacciarsi con un monitor, non traducendosi in maggiori abilità nella vita reale.

Oltre a questi effetti benefici e adattativi, negli ultimi anni sono emersi rapidamente quadri di gaming patologico con risvolti a volte drammatici, legati a loro utilizzo estremo, tanto da interferire con la vita quotidiana e la salute. In alcuni casi questi episodi hanno avuto un grande risalto mediatico, come possibile causa di ritiro sociale in ambito giovanile, stimolando l’opinione pubblica e il mondo scientifico a una riflessione profonda sul rapporto tra ragazzi e divertimento.

I fanciulli che presentano aspetti affettivi irrisolti sembrano incapaci di interrompere l’utilizzo del videogioco e al contrario manifestano la necessità di trascorrervi tempi progressivamente più lunghi, disinvestendo energie dai rapporti interpersonali e dalle attività scolastiche o lavorative. Video-giocare online è associato a sentimenti di grande partecipazione ed entusiasmo, mentre quando per un qualsiasi motivo il gioco non può essere disponibile, emergono sentimenti di mancanza, vuoto e irrequietezza, che possono esitare in comportamenti aggressivi o esplosioni di rabbia.

Il fatto che questo fenomeno faccia riferimento prevalentemente agli adolescenti è significativo, perché in questa fase della vita, dove si strutturano personalità e senso di identità, l’isolamento e la carenza delle relazioni sociali possono porre le basi per disturbi psichiatrici futuri. Una maggiore impulsività accompagnata da minori competenze sociali e un monte ore di gioco che supera le trenta ore settimanali sono importanti fattori di rischio per diventare giocatori patologici. Divertirsi in questo modo senza limite di tempo può avere serie ricadute nella vita reale dal punto di vista psicofisico e sociale, con alti livelli di stress, ridotta capacità di attenzione, alterazione del ritmo sonno-veglia, progressivo isolamento e crescenti difficoltà relazionali.

In particolare, come abbiamo visto precedentemente, l’utilizzo dei videogame online privilegia lo sviluppo di capacità di attenzione basate sull’immediatezza e la superficialità a discapito delle abilità di attenzione protratta che sono richieste per esempio nello studio, nell’apprendimento e nella didattica in generale. Nell’attività scolastica infatti sono necessarie la capacità di procrastinare la propria soddisfazione e questo si contrappone all’idea della gratificazione immediata, irrealistica, proposta proprio dai giochi virtuali.

È possibile pensare che essere connessi online molte ore al giorno interferisca con lo sviluppo delle capacità di attenzione rendendo i compiti quotidiani monotoni e poco gratificanti fino a divenire troppo frustranti. A un livello più concreto, se da un lato la tecnologia facilita l’apprendimento e l’accesso alle informazioni, dall’altro i videogiochi possono rappresentare una fonte di distrazione sempre presente

I giovani videogiocatori di 6-9 anni risultano meno coinvolti nelle attività post-scolastiche rispetto ai coetanei non giocatori e ottengono minori punteggi nella lettura e nella scrittura, così come nel calcolo e nel ragionamento logico. Questo si traduce in una diminuzione del rendimento didattico direttamente proporzionale alle ore di gioco quotidiane, che può risultare paradossale in virtù del fatto che spesso i giovani gamer appaiono particolarmente intelligenti rispetto ai coetanei.

Dal punto di vista fisico, trascorrere molte ore giocando seduti davanti allo schermo, in alcuni casi anche sedici ore al giorno, può favorire l’insorgenza di disturbi come l’emicrania, dolori cervicali, difficoltà a mantenere un’alimentazione adeguata e ad addormentarsi. Pur considerando il fisiologico cambiamento dei ritmi circadiani in adolescenza, giocare in orari notturni può portare, infatti, a ridurre le ore di riposo proprio in un’età in cui il sonno è particolarmente importante per la salute e la crescita.

L’illuminazione artificiale del monitor e l’eccitazione connessa con il gioco possono far perdere la cognizione del tempo e del bisogno di riposare, generando spesso quel circolo vizioso che estranea dai ritmi convenzionali della realtà. La regolarità del sonno è un elemento fondamentale per poter mantenere la concentrazione nelle attività del giorno successivo e per consolidare nella memoria ciò che abbiamo appena appreso.

Per lo stesso principio, giocare in maniera eccessiva può portare a pattern di alimentazione scorretta e a praticare poco esercizio fisico, con importanti conseguenze sulla qualità della vita.

In aggiunta a ciò esistono anche fattori di rischio interni, come alcuni aspetti della personalità del giocatore e il livello di coinvolgimento nella struttura del passatempo, oltre che esterni, legati alle caratteristiche componenziali intrinseche.

Gli adolescenti possono utilizzare la competizione online, specialmente gli sparatutto, per regolare in una dimensione protetta l’aggressività, connessa a emozioni disturbanti come la rabbia e la frustrazione, a discapito delle possibilità reali di affrontare attivamente gli eventi stressanti. L’introversione, l’impulsività e un basso livello di autostima nella vita reale, contrapposti a un’alta efficienza nel gioco online, sono considerati fattori predisponenti per un forte investimento emotivo nel gioco come modalità di evasione dai conflitti quotidiani.

La scelta o la costituzione di un avatar, per esempio, rappresenta per un giovane giocatore l’occasione per integrare caratteri individuali con parti o funzioni sentite come mancanti, e che ora concorrono a strutturare aspetti di sé idealizzati.

L’esposizione ripetuta a questi artifici d’azione definiti si traduce, differentemente da altre tipologie di gioco neutre, in una desensibilizzazione nella risposta alla presentazione di immagini di violenza. I giochi di ruolo strategici, d’altro canto, coinvolgendo il giocatore in attività di gruppo agiscono positivamente sulle capacità relazionali ed empatiche; dopo una sessione di gioco online di 10 minuti si può evidenziare un aumento della sensibilità e della partecipazione emotiva. Tuttavia proprio i giochi di ruolo strategici per le loro caratteristiche strutturali che prevedono un’alta partecipazione e l’impossibilità di giungere a una conclusione definitiva, possono promuovere situazioni di spasso estreme, destinate a diventare patologiche. Il gioco eccessivo può condurre a manifestazioni patologiche di dipendenza analoghe a quelle riscontrabili nella dipendenza da sostanze caratterizzate da craving, astinenza, tolleranza e modificazioni dell’umore. Nonostante la definizione classica di dipendenza sia legata più prettamente all’assunzione di sostanze psicotrope, recentemente si è assistito alla comparsa di fenomeni di dipendenza associati alla ripetizione di un comportamento stereotipato che porta a una gratificazione – come nel caso del gioco patologico – definiti appunto dipendenze comportamentali. Tutte le forme di dipendenza, sia da sostanze sia comportamentali, si fondano sul circuito di ricompensa e rinforzo e sono caratterizzate da salienza, tolleranza, ritiro, modifica dell’umore, ricaduta, conflitto.

Le aree cerebrali che si attivano nei videogiocatori abituali, quando vengono esposti a immagini riguardanti il videogioco, sono attive anche nei soggetti dipendenti da sostanze o dal videogioco quando vengono esposti ai rispettivi stimoli specifici. I secondi forniscono una stimolazione molto intensa per numero di stimoli nell’unità di tempo, decisamente più coinvolgente rispetto alle esperienze quotidiane nella vita reale; studi recenti hanno suggerito come, agendo sul rilascio di dopamina, possano portare a modificazioni a lungo termine nel circuito cerebrale della ricompensa similmente agli effetti della dipendenza da sostanze psicotrope.

Tuttavia ciò che è emerso è che condizioni di dipendenza conclamata riguardino principalmente i pazienti adulti, mentre nei giocatori adolescenti sono rintracciabili i segni precursori di possibili future patologie di dipendenza, disturbi della personalità più o meno gravi, o risoluzioni spontanee, a conferma della difficoltà di fare diagnosi con pazienti in età evolutiva.

Il gaming online è per sua natura soprattutto un modo di comunicare attraverso aspetti parziali dell’identità, quelli che in quel preciso contesto sono più apprezzati dagli altri giocatori, che diventano anche i migliori amici, e che possono rimanere tali soltanto se si riescono a mantenere alte le performance nel percorso ludico.

Per questo motivo è facile imbattersi in giovani pazienti che dedicano sessioni di allenamento alla propria manualità nell’utilizzo della consolle, perché da lei dipendono le probabilità di sopravvivenza che in quel momento è tutto il loro mondo, e a seguire la considerazione, la stima e una certa affettività dei compagni alleati.

Le funzioni della dissociazione e della difesa

Nell’incontro con la psicopatologia web-mediata questi due modi diversi di intendere il modello dissociativo, oltre a sottendere a varie patologie nella clinica psichiatrica attuale, sembrano fare riferimento all’uso diverso che della dissociazione fanno da una parte gli adulti affetti da una dipendenza patologica e che usano la dissociazione per operare una partizione a livello dei vissuti e dei pensieri, dall’altra i giovani, nativi digitali, alle prese con il mantenimento dell’unico livello di coesione possibile nelle relazioni con il proprio gruppo di pari: gaming online e social network.

In questo caso la dissociazione ha come oggetto l’esperienza emotiva rispetto al suo correlato somatico, che, in una concezione delle emozioni come ponte tra la mente e il corpo, ne rappresenta la potenziale dolorabilità, o meglio la parte sensibile, quella che si somatizza.

La polarità opposta è rappresentata da quel senso psichico di incertezza e precarietà che precede l’esperienza emotiva di qualunque natura essa sia, che ci fa sentire vivi e che nell’ambito della tecnologia digitale è proporzionale al livello di interattività. Le emozioni passano per il corpo come i sentimenti per la coscienza, quasi a segnare il limite che la presenza fisica dell’altro pone alla nostra spontaneità.

Arrossire in pubblico è una manifestazione della mente attraverso il corpo, sfugge al nostro controllo ed è avvertita sempre come dolorosa. Più il corpo è investito più l’esperienza emotiva va oltre la nostra capacità di trattenere ed elaborare. Non esistono emozioni buone o cattive, esistono emozioni che possono essere contenute e di cui si può fare esperienza e al contrario emozioni che travalicano la nostra capacità di contenimento fino a compromettere il senso di identità. Di fronte a una brutta figura un adolescente può sentirsi letteralmente andare in pezzi e innescare comportamenti evitanti il rischio che questa esperienza possa ripetersi.

Le emozioni possono essere dissociate dai pensieri annessi attraverso comportamenti reattivi, che si organizzano in modelli compulsivi diversi, oppure, come è accaduto a quei nativi digitali che presentano difficoltà nelle relazioni, risultare primariamente impedite nella capacità di essere riconosciute.

Questo accade quando si verificano anomalie nella fase di rispecchiamento primario, una fase precoce della vita dove le emozioni condivise sono le basi del personale sentimento di esistere. Il rispecchiamento prevede una relazione interattiva dove è importante una reciproca partecipazione, che nasce nell’incontro di due sguardi mentre pensano la stessa cosa.

Di solito succede tra un bambino e chi gli sta intorno, ed è lecito pensare che con uno screen digitale tutto ciò abbia una natura diversa.

Nella patologia dissociativa la dissociazione è una difesa, proprio come accade nel pensiero psicopatologico francese, e distingue due principi organizzatori, l’isteria e le psicosi acute. Il principio organizzatore isterico fa riferimento alla dissociazione della coscienza, con meccanismi di difesa progressivi, che vanno dall’espressività somato-forme all’alterazione della comunicazione e della relazione. Il principio organizzatore delle psicosi acute ha come elemento centrale la destrutturazione della coscienza. In tutti i casi la patologia dissociativa nasce quando esiste una situazione insopportabile che non consente compromessi accettabili con il mondo esterno. A tutti gli stadi dello sviluppo la maturità del sé psicologico rappresenta il fattore critico nel determinare la capacità individuale di adattarsi alle sfide evolutive interne ed esterne.

L’adolescente ha bisogno di raggiungere una prospettiva comprensiva e integrata, dove i sentimenti procurati dagli eventi sono concepiti come rappresentazioni mentali che sono reali e allo stesso tempo non reali. Ciò permette al soggetto di trovare una prospettiva flessibile e di giocare con la realtà alla ricerca di un modo più confortevole di vivere con essa, grazie alla creatività.

Per alcune persone essere reali nel mondo coincide con un’esperienza di sé troppo dolorosa. Quando qualcuno non è stato messo adeguatamente nella condizione di giocare con la realtà avrà bisogno di creare inconsapevolmente stati alterati di coscienza, ovvero stati dissociativi, la cui matrice sensoriale ha lo scopo di annullare le percezioni relative alla realtà ordinaria. Le reiterazioni di questi stati a scopo difensivo fanno della dissociazione una difesa e possono, con il tempo, costruire la dinamica di base della dipendenza patologica, fino a configurare i modelli compulsivi stessi come forme comportamentali dissociative.

Per questo motivo le vere dipendenze patologiche non sono mai il frutto di una scelta consapevole o una semplice ricerca del piacere, ma piuttosto esperienze dissociative transitorie che permettono al soggetto di uscire temporaneamente dalla sua realtà allo scopo di risolvere una condizione di disagio persistente, divenuta insopportabile.

In parole semplici, attraverso la sensorialità derivante da un’alterazione dello stato di coscienza, il soggetto riesce a mantenere un livello sufficiente di autostima, un’immagine congrua di sé e una certa sicurezza nelle situazioni sociali, ma sempre sotto un incombente sentimento di precarietà, che in parte è rimosso. Da qui l’impossibilità di costruire la propria esistenza come lineare nel tempo e che invece proprio al tempo stesso sembra essere impermeabile. In questo senso la dissociazione crea una distorsione retrospettiva del passato e della propria capacità di immaginare e organizzare il futuro. La sequenza lineare del tempo di cui si fa esperienza viene modificata diventando un sistema protettivo che genera un’amnesia, perlomeno rispetto alla memoria percettiva degli eventi, ma non rispetto alla memoria esperienziale che rimane intatta.

La dissociazione è una difesa globale contro la presenza di un trauma o di una paura per un potenziale trauma e si presenta come una capacità ipnoide della personalità. Il suo obiettivo è la sopravvivenza, la sua tendenza invece è quella di strutturarsi come stato patologico eludendo qualsiasi forma di integrazione o cambiamento.

La dissociazione è un processo inibitorio attivo che normalmente esclude dalla coscienza percezioni interne ed esterne, ed è pertanto un meccanismo di sbarramento che protegge la coscienza ordinaria dall’inondazione di un eccesso di stimoli.

Negli stati dissociativi patologici, la parte scissa della coscienza o lo stato modificato di coscienza, si comporta come un’identità mentale indipendente dalla personalità globale, che risulta incapace di esercitare qualunque controllo sulla porzione scissa.

Di fronte a un’esperienza della realtà insopportabile o intollerabile si possono determinare due manovre psichiche che spiegano i fenomeni della dipendenza. Una è il diniego, l’altra è un’attività che reca sollievo. La costruzione di un settore scisso, insita in tutte le forme di dipendenza da una sostanza, da un oggetto o da un comportamento, diventa il tratto caratteristico di una separazione che comporta la ricerca di una forma di piacere o sollievo, oltre che un cambiamento degli obiettivi e dei valori personali.

In moltissimi comportamenti di dipendenza patologica possiamo osservare gli sforzi disperati per evitare di essere scoperti e l’assenza di ogni forma di vera colpa o rimorso. Quello che sembra emergere spesso è invece il tentativo di evitare la vergogna conseguente allo smascheramento che, oltre a rivelare una falsa immagine di sé stessi, comporta sempre il rischio di un crollo dell’identità.

Tecnologia e struttura cerebrale

L’idea che la tecnologia digitale abbia un ruolo nella formazione dei nostri pensieri rappresenta il filo conduttore di molte ipotesi di ricerca con cui gli studiosi di diverse discipline stanno esplorando gli effetti di internet sul nostro funzionamento mentale e sui suoi processi cognitivi ed emotivi. Sappiamo che ogni tipo di apprendimento provoca cambiamenti nel cervello e la connessione, poiché facilita l’accesso alle risorse educative, è una tecnologia destinata a trasformare il funzionamento della nostra mente. Decidere di rimanere online implica la scelta di ripetere azioni molto simili tra di loro, perlopiù a grande velocità, e significa anche essere sottoposti a un flusso costante di stimoli/informazioni che coinvolgono i nostri sensi simultaneamente, in modo particolare la vista e l’udito

L’utilizzo di internet implica sia fornire risposte rapide agli stimoli che si presentano sullo schermo, sia ricevere rinforzi, feedback o ricompense che incoraggiano la ripetizione di determinate azioni fisiche e mentali.

Vista in questi termini, la rete funziona in modo non troppo dissimile da una skinner box, la famosa scatola utilizzata negli esperimenti sul condizionamento operante in psicologia generale, in cui il topo schiaccia una leva e ottiene una ricompensa; navigando clicchiamo utilizzando il mouse e otteniamo rapidamente risposte, informazioni, messaggi, dimenticando spesso quanto succede intorno a noi, perché ci catapultiamo all’interno di uno stato dissociativo transitorio.

Questo assorbimento nel medium è collegato alla velocità e alla quantità di stimoli che tale strumento è in grado di inviare simultaneamente: finiamo per restare inchiodati alla rete.

D’altra parte la navigazione ha conseguenze psicologiche sul nostro cervello non solo perché ci impegna in determinate attività, ma anche perché non ci impegna in altre specifiche attività, visto che il nostro corredo neuronale si modifica in base alle attività fisiche e mentali nelle quali lo coinvolgiamo. I medium ci cambiano e modificano a loro volta il nostro modo di pensare e di agire, e quindi il funzionamento della mente. Rispetto ad allora e alla celebre frase “il medium è il messaggio”, oggi possediamo gli strumenti scientifici per dimostrare empiricamente tale idea e le neuroscienze ci stanno fornendo una serie di dati sul funzionamento plastico del nostro sistema cerebrale grazie ai quali diventa possibile studiare le trasformazioni cui va incontro attraverso l’esperienza, in direzione sia funzionale che disfunzionale.

La mente adolescente e il processo di potatura

L’adolescenza è un periodo di trasformazioni, in senso sia fisico che psicologico. Qualcosa cambia nel cervello e nei pensieri del giovane, in parallelo a una trasformazione fisica così rapida da poter essere paragonabile, come velocità di metamorfosi, a quella che avviene nei primi anni di vita di un neonato. Inoltre, anche a livello psichico, accadono così tante cose, da consentirci di mettere a paragone il periodo adolescenziale con i primi tre anni di sviluppo del bambino, i famosi mille giorni, che un po’ tutti concordano nel ritenere gli anni della fondazione della personalità, costruita intorno a un temperamento innato. Se i primi anni sono anni di imprinting, gli anni dell’adolescenza sono estremamente fertili e questo per il processo di sfoltimento, potatura o pruning delle sinapsi neuronali, che concorre a creare e a rimarcare reti neuronali che rimarranno marchiate a fuoco nella mente dell’individuo per tutta la vita. Per questo è importante che, per esempio, chi voglia insegnare ai propri figli a suonare il pianoforte, lo introduca in infanzia, ma si assicuri che continui a suonarlo negli anni dai 13 ai 14 fino ai 20 anni, insomma, grandemente influenti su tutta la via futura. Avvengono fondamentalmente due grandi cambiamenti in età adolescenziale: Aumento della ricerca di novità. Si fa riferimento alla questione dopaminergica che, come è noto, sta alla base del meccanismo che ci porta a buttarci su cose nuove, a cercare sensazioni diverse, alternative, per mezzo di quello che viene chiamato circuito di reward, che premia il cervello con scariche di dopamina, e in questo modo aumenta l’appetibilità, l’affordance, dell’esperienza stessa, che verrà ricercata nuovamente. Si intende anche un livello di dopamina tendenzialmente più basso negli anni dell’adolescenza, ma con picchi più alti quando vi siano sensazioni nuove e potenti, che producono un comportamento più impulsivo. Questi sono anche gli anni della strutturazione delle dipendenze più difficili da sradicare, proprio in ragione di questo particolare panorama neurochimico in cui è centrale il ruolo della dopamina, sempre coinvolta in tutto ciò che riguarda il problema addiction. Vi è, senza dubbio, la ricerca di un maggior coinvolgimento sociale. Se l’adolescenza rappresenta l’arco temporale che consente a un individuo di sperimentarsi e di attraversare un periodo, per usare delle parole mutuate dalla psicologia dello sviluppo, di separazione/individuazione, ciò significa che l’investimento iniziale effettuato dal bambino, in senso affettivo, verso la coppia genitoriale, lascia il posto a un progressivo distacco e a un investimento questa volta verso l’esterno, verso il gruppo dei pari, che come un magnete trascina a forza il ragazzo al di fuori del contesto di origine. Questo processo avviene per gradi, e con tempi diversi: quel che è certo è che contiene in sé un lutto reciproco vissuto da genitori e figli, che in questo modo, inevitabilmente, si allontanano. Le emozioni vengono esperite e metabolizzate con maggiore intensità. Oltre alla dopamina, si parla di una sorta di iper-razionalità, che caratterizza in questa fase della vita il pensiero dei ragazzi.

Per iper-razionalità, si intende una specifica forma del pensiero che certo si complica in ragione dello sviluppo cerebrale, che in questa fase assume particolare rilevanza, ma che tuttavia rimane per certi versi limitato a delle considerazioni parziali a riguardo della realtà. Questo vuol dire, in altre parole, che l’adolescente esegue delle valutazioni parziali sulle esperienze che vive e di ciò che intende fare, in particolare con uno sbilanciamento tra quelli che sono i pro e i contro relativi alle diverse esperienze. Daniel Siegel fa l’esempio della roulette russa, per un adulto gioco rischiosissimo e assurdo, per un adolescente invece gioco con altissime probabilità di vincere, vista la possibilità di non trovare il proiettile in canna 5 volte su 6. L ́autore utilizza questo esempio estremo per cercare di far capire al lettore che il giovane teenager estremizza e assolutizza la valutazione dell’esperienza, negando o non integrando alcune parti o certi rischi connessi ad un’esperienza.

Questo pensiero iper-razionale ha quindi la colpa di accendere nell’adolescente quegli slanci all’azione che a volte possono metterlo a rischio. Aumento dell’esplorazione creativa. In questa fase si innalza potentemente la spinta dell’individuo a vedere e sperimentare cose nuove: questo ha una funzione anche evolutiva. Inoltre, lo sviluppo cerebrale porta l’individuo a metabolizzare il suo stesso pensiero, in grado ora di astrarre e mettere in discussione le cose, approfondendole. Sono anni di grande maturazione intellettuale e di maggiore consapevolezza, pur sempre però minacciata dal senso di confusione e di diffusione identitaria che con sé porta. Per questo resta così importante la presenza di figure stabili che traghettino, come sacerdoti del passaggio, il ragazzo verso uno stato di maggiore fermezza identitaria. In adolescenza è forte lo scollamento tra quello che si dice di volere, e quello di cui invece si ha bisogno. Assecondare le spinte di un adolescente senza imporre limiti, è lasciarlo in balìa di sé stesso, perso in una libertà sconfinata che è solo caos. In ogni caso, in questa fase resta forte il bisogno di accudimento e di guida da parte di persone autorevoli, nel mare della complessità di una fase di transizione così delicata per l’individuo che la vive.

Come i videogames modificano la plasticità neuronale

I videogames oggigiorno sono una forma sempre più comune di intrattenimento, e diversi studi evidenziano che tale forma ha un effetto sul nostro cervello e sul nostro comportamento, perché possono cambiare le regioni del cervello responsabili dell’attenzione e delle capacità visuo-spaziali, rendendole pericolosamente più efficienti. Le regioni del cervello associate al sistema di ricompensa sono quelle più interessate, perché collegate alla dipendenza in sé.

Marc Palaus e collaboratori, in uno studio recentemente pubblicato, hanno voluto approfondire e analizzare le tendenze che erano emerse dalla ricerca riguardo l’effetto dei videogames sul cervello dei giovani e sul nostro comportamento. Hanno raccolto i risultati di 116 studi scientifici, di cui 22 che prendevano in considerazione i cambiamenti strutturali nel cervello e 100 che esaminavano i cambiamenti nella funzionalità cerebrale e dell ́atteggiamento. In generale, da questo resoconto scientifico emerge che tali attività ludiche possono modificare il funzionamento e anche la struttura dell ́encefalo. Si può influenzare l ́attenzione, e mostrano prestazioni eccessive nell’attenzione selettiva. Questo significa che le regioni del cervello coinvolte nell’attenzione lavorano in modo più efficace nei giocatori di videogames e richiedono una minore quota di attivazione per sostenere l’attenzione nei compiti impegnativi. Ci sono anche evidenze secondo cui i videogiochi possono aumentare la dimensione e l’efficienza delle regioni del cervello implicate nelle competenze visuo-spaziali. L’ippocampo destro si è dimostrato più ampio e sviluppato che in altri. Possono, pertanto, portare a forme di dipendenza in quanto vi sarebbero cambiamenti funzionali e strutturali nel sistema di ricompensa neurale nei soggetti dipendenti. Questi cambiamenti cerebrali sono fondamentalmente uguali a quelli osservati in altri disturbi da dipendenza. È probabile che i videogiochi abbiano sia aspetti positivi, su attenzione, capacità visive e motorie, sia aspetti negativi, rischio di dipendenza cronica e patologica, ed è essenziale che si comprenda questa complessa dualità, per far in modo che non si oltrepassi il limite.

Per quanto riguarda le capacità attentive il flusso ininterrotto di stimoli e notifiche a cui sono sottoposti coloro che utilizzano i videogiochi favorisce un mantenimento costantemente diviso della concentrazione. Tale tendenza riduce il nostro span attentivo e rende più difficile il mantenimento della concentrazione su un singolo compito. I comportamenti di controllo caratterizzati da una frequente e rapida verifica della presenza di nuove informazioni in arrivo provenienti da notizie, social media e contatti personali sono infatti risultati essere rinforzati a livello cerebrale attraverso il sistema cortico-striatale dopaminergico, il quale risulta coinvolto nei comportamenti legati alla dipendenza. Le capacità mnestiche sono risultate a loro volta influenzate dall’utilizzo del gioco online: la notevole mole di informazioni, immagini, musiche e colori a disposizione degli utenti ha infatti un impatto significativo sulle modalità tramite le quali la conoscenza viene rievocata, immagazzinata e valutata. Le piattaforme ludiche vengono frequentemente utilizzate come una forma di memoria esterna, rendendo più semplice per gli utenti rievocare dove l’informazione è stata reperita a discapito di un ricordo accurato dei contenuti effettivi di tale informazione. L’avvento delle nuove tecnologie dei giochi informatici ha inoltre alterato drasticamente l’opportunità di interazioni sociali e il contesto in cui tali interazioni hanno luogo, influenzando in modo significativo anche il concetto di sé e l’autostima. Le interazioni sociali online sono risultate dannose anche per le stesse risposte delle relazioni reali a livello neurocognitivo, coinvolgendo aree cerebrali analoghe alla cognizione sociale, quali l’amigdala. Le relazioni sociali online vengano elaborate in modo molto simile rispetto a quelle che hanno luogo offline, mettendo in luce le implicazioni significative delle interazioni tecnologicamente mediate per comprendere la socialità umana. Non tutti si rendono conto quanto sia urgente dare priorità alla determinazione degli effetti dell’uso sostenuto dei media in merito allo sviluppo cognitivo e cerebrale durante l’infanzia e l’adolescenza. Ma cosa accade esattamente alla mente adolescente a contatto prolungato con i mondi virtuali?

Molteplici sono le possibilità offerte dalle tecnologie – spiega il professor Vincenzo Caretti, psicologo clinico e professore di Psicopatologia dello Sviluppo all’Università degli Studi di Palermo. Al di là delle possibilità di nuocere, il divertimento virtuale può essere di ausilio nel rallentare il declino cognitivo e nel migliorare i riflessi, come avviene nella neuro-riabilitazione. Certamente non si possono trascurare gli svantaggi conseguenti a un abuso eccessivo e cronico delle tecnologie, come l’atrofia della materia grigia, area cerebrale importante per la programmazione, frequentemente presente negli adolescenti dipendenti.

Dal punto di vista psicologico, un sintomo preoccupante è la trance dissociativa da videoterminale, rilevata originariamente su un ragazzo che presentava un delirio dopo l’abuso del videogioco Street Fighter. Si tratta di soggetti con una particolare vulnerabilità, nel caso specifico il soggetto era cresciuto in casa famiglia. Alla base della dipendenza dalle nuove tecnologie vi è l’attivazione di una struttura cerebrale, il nucleo accumbens, come quello che viene stimolato dai like di Facebook. Quest’area cerebrale si sviluppa tra i 13 e i 17 anni in misura maggiore rispetto alla corteccia frontale, deputata alla regolazione del comportamento.

Ecco spiegata l’impulsività tipica degli adolescenti su cui l’impatto delle nuove tecnologie ha quindi particolare significato e deve stimolare precoci processi di intervento; ovviamente tale iperattività comporta delle problematiche rispetto al comportamento. Oggi la psicoterapia non può più ignorare l’importanza dell’utilizzo, più o meno funzionale, del virtuale: basti considerare come l’interazione uomo-robot porterà alla costruzione di apparecchiature cibernetiche con pelle al silicone che interverranno nei diversi ambiti di vita, e altresì penso ai robot affettivi, già adoperati nell’assistenza agli anziani.

Bisogna innanzitutto considerare che l’attività del cervello conseguente all’interesse per il gioco offline e online è sostanzialmente identica. In altre parole le aree del cervello che si attivano attraverso i social media sono molto simili a quelle che si attivano con le amicizie reali, ovvero le aree del lobo temporale, importanti per la definizione dell’identità. Se ciò non ci deve portare immediatamente a demonizzare la realtà virtuale, è innegabile il rischio insito in un abuso. Nell’attivazione cerebrale indotta dalle tecnologie manca il reclutamento della corteccia frontale, implicata nella rappresentazione del futuro, nel controllo dell’impulsività e nella creatività. Dal punto di vista cognitivo i danni sono notevoli: non solo perché delinea per tutto il resto della vita deficit di attenzione sostenuta, selettiva e mantenuta, ma anche per l’autocontrollo, spesso a seguito dell ́identificazione con l’avatar. In aggiunta a ciò, più tempo si trascorre nella rete da gioco, maggiore sarà l’indebolimento delle connessioni tra le aree cerebrali. Sui cambiamenti psicologici indotti dalle nuove tecnologie e sul ruolo della psicoterapia si è espresso anche il docente Daniele La Barbera, professore ordinario di Psichiatria presso l’Università di Palermo. “La rapidità dei cambiamenti indotti dal gioco virtuale richiede responsabilità e non può essere trascurata. Il danno psicologico più grave riscontrabile oggi è l’erosione del principio di realtà, che sembra franare nei giovanissimi. In particolare sono in aumento i fenomeni dissociativi a causa del precoce impatto continuativo con la rete, con un effetto grave sui bambini, più esposti perché non ancora in possesso di un sistema di pensiero sviluppato. Una diretta conseguenza è il collasso dell’empatia. Si può addirittura pervenire a un’equazione del narcisismo calcolando il numero dei giochi svolti per ora. L’uso molto intenso dei social media può portare allo sviluppo di tratti autistici, come l’evitamento del contatto oculare. Si assiste in definitiva oggi a un disagio specifico tecno-dipendente che obbliga a dire addio al modello tradizionale di psicoterapia e una presa di consapevolezza di nuove strategie di cura, in cui peraltro le tecnologie stesse sono implicate, come nelle moderne terapie. Gli psicoterapeuti possono reagire in modi diversi, come la negazione, oppure l’arroccamento su posizioni da rivedere alla luce di tali drastici cambiamenti, come il riferimento alla teoria freudiana. In ultimo esiste l’apertura critica al nuovo disagio, la via più utile, considerata la necessità, ormai irrinunciabile, della comprensione dei fenomeni di mutamento culturale, che non può più considerarsi una questione di nicchia o per pochi illuminati“.

E se i danni delle tecnologie sono innegabili, certamente un ruolo non indifferente lo gioca la personalità, al punto da condizionare lo sviluppo o meno della patologia. Vi sono fattori propri di personalità come la schizotipia, ovvero la tendenza al pensiero disorganizzato, che predispongono allo sviluppo di una psicopatologia, in seguito al contatto con il mondo virtuale.

Il fattore personalità è talmente centrale che con l’aumentare di tale tratto di personalità il fattore immersione nelle tecnologie appare addirittura trascurabile. Il gaming disorder è una condizione psicologica caratteristica di quei soggetti che sono ossessionati da questa determinata forma di divertimento, escludendo tutte le altre. Tali adolescenti arrivano persino a smettere di mangiare e a ridurre le ore di sonno, trascorrendo molto tempo davanti allo schermo. Un recente studio svolto su 106 ragazzi sud-coreani di età compresa tra 10 e 19 anni, con diagnosi di dipendenza da gioco online, ha evidenziato una maggiore connettività tra le aree corticali di questi pazienti rispetto alla popolazione di riferimento. Attraverso la risonanza magnetica funzionale, infatti, è stato possibile confrontare l’attività cerebrale dei pazienti con quella di 80 soggetti di controllo, considerando come misura di connettività funzionale le aree simultaneamente attive e a riposo. È bene capire che solo in determinati casi l’iperconnettività tra due aree è un fatto positivo, in quanto promuove migliori performance cognitive, come gli stimoli visivi, uditivi e il cosiddetto salience network, ovvero una rete neurale che sottende i processi attentivi necessari a cogliere gli stimoli salienti, in mezzo a tutti quelli proposti dal contesto ambientale.

Si puó supporre che i videogamer possiedano un ́elevata capacità di dirigere l’attenzione verso gli stimoli target e di riconoscere le nuove informazioni nell’ambiente, peculiarità che permetterebbe loro di reagire velocemente alle difficoltà del gioco.

Ma non significa affatto che a lungo andare porti esiti positivi per un organismo in fase evolutiva. Nella maggior parte dei casi l’iperconnettività si associa a una maggiore distraibilità e impulsività, due qualità non propriamente funzionali al raggiungimento degli obiettivi. I giovani evidenziavano una maggiore connettività anche tra la corteccia prefrontale dorsolaterale e la giunzione temporo-parietale, un pattern già riscontrato in pazienti afflitti da schizofrenia, sindrome di Down e autismo.

Concezione spaziale e allucinazioni

Il cervello di tutti noi reagisce in modo differente allo spazio virtuale rispetto a quello reale. Questi risultati potrebbero essere significativi nello studio della realtà virtuale usata nel gioco, che poi si riflette nei settori sociali, relazionali e quotidiani. L’ippocampo, una regione specifica del sistema limbico è coinvolta, oggi più che mai, in un gran numero di condizioni patologiche, come l’Alzheimer, l’ictus, la depressione, la schizofrenia, l’epilessia, disturbi da stress post-traumatico, disturbi di personalità e dissociativi, e gioca un ruolo importante nella formazione di nuovi ricordi e nella creazione di mappe mentali dello spazio.

Quando si esplora l ́ambiente circostante, i neuroni ippocampali si attivano selettivamente, fornendo una mappa cognitiva del luogo in cui ci si trova. Anche se i meccanismi con cui il cervello fa delle mappe cognitive rimangono tuttora un mistero, si ipotizza che questa piccolo meccanismo limbico calcoli le distanze tra il soggetto e gli altri elementi dello spazio, come possono esserlo edifici, montagne, o, in spazi organizzati in maniera complessa, anche odori e suoni. Tutto questo sistema complesso di segnali, simboli, suoni e immagini possono aiutare il cervello a determinare ampiezza degli spazi e fare ordine tra le distanze. Per dimostrare come l’ippocampo può effettivamente costituire mappe spaziali utilizzando solo punti di riferimento visivi, i neuroscienziati hanno messo a punto un ambiente di realtà virtuale non invasiva analizzando come i neuroni dell’ippocampo nel cervello di giovani ratti hanno reagito nel mondo virtuale, senza la possibilità di utilizzare gli odori, i suoni, e i segnali esterni. I risultati dello studio indicano attivazioni cerebrali completamente diverse nei due ambienti, virtuale e reale. Nel primo mondo i neuroni dell’ippocampo dei ratti si focalizzavano in modo completamente casuale sugli elementi dell’ambiente circostante, come se la mappa dello spazio fosse del tutto assente e i neuroni non avessero idea di dove l ́animaletto si trovasse; nonostante questo le bestioline sembravano comportarsi in modo perfettamente normale sia nell ́una che nell ́altra dimensione. I neuroni nel mondo virtuale calcolavano la quantità di distanza che si era percorsa, indipendentemente da dove si trovava il soggetto nello spazio virtuale. Se i neuroni ippocampali si erano attivati molto nel mondo reale, nel mondo virtuale più della metà di questi smettevano di funzionare. Sulla base di tali risultati si è concluso che il modello neurale nella realtà virtuale è sostanzialmente diverso dal pattern di attività nel mondo reale e che vista la quantità di impieghi che ha la dimensione virtuale è importante comprendere appieno i meccanismi cerebrali coinvolti. Quindi ci troviamo dinnanzi al complesso fenomeno del percepire, non tanto come un insieme di sensazioni fruite passivamente, che vengono poi influenzate dall’elaborazione cognitiva, ma piuttosto come la capacità di cogliere attivamente informazioni rilevanti dal flusso continuo di dati in cui si è immersi. Anche se le immagini sulla nostra retina sono in due dimensioni, è grazie alla conoscenza del concetto di profondità, intrinseco nel percepirci come osservatori, che possiamo fruire la tridimensionalità. La trasduzione di segnali sensoriali in informazioni che ci permettono di comprendere il mondo è un processo di elaborazione. Perché noi possiamo percepire è necessario che l’oggetto su cui poniamo la nostra attenzione venga prodotto e realizzato dalla nostra mente. Questo processo può essere indotto anche in assenza di stimoli, come nel caso delle allucinazioni. I fenomeni allucinatori nei giocatori cronici di videogiochi forniscono un chiaro punto di vista sui meccanismi che sottendono la percezione, attribuendole nuovi insight relativamente a questi processi. Questa disregolazione porta a una comunicazione ridotta fra i neuroni delle aree del cervello responsabili della fruizione delle informazioni visive e connettive.

Il termine allucinazione è stato utilizzato per la prima volta all’inizio del XVI secolo per indicare semplicemente una “mente che vagava”, mentre quelle che oggi si considerano allucinazioni venivano chiamate apparizioni, con la certezza che tali apparizioni come i sogni, raccontassero il futuro. Sono però tuttora esempi di divagazione mentale, poiché sono prodotte nella mente e sono imposte come extra alla realtà presente. Sono più semplicemente definite come percezioni di cose che non ci sono, la maggior parte delle volte in forma di visioni o di voci, ma talvolta anche tramite altri sensi, come l’olfatto o il tatto. Le allucinazioni vengono percepite come se fossero reali, ma si differenziano dalle percezioni della realtà perché non viste da nessun’altro. Non possono essere paragonati ai normali ricordi degli eventi passati o le quotidiane divagazioni mentali, poiché hanno luogo qui e ora. Là dove i viaggi mentali nel tempo tendono ad essere indistinti e contenuti all’interno della mente, le allucinazioni sono proiettate nello spazio esterno, vivide come se fossero reali. Talvolta interagiscono con le percezioni del mondo reale sovrapponendo situazioni inesistenti in un mondo altrimenti normale. Fino al pronunciamento di Jean-Etienne Dominique Esquirol nel XVIII secolo, sentire voci era ritenuto una cosa piuttosto normale ed era attribuito a dei o demoni. Possono apparire così realistiche da essere spesso incorporate nella normale routine. Sebbene per la maggior siano viste o udite, a volte capita che invadano gli altri sensi e che possano essere interpretate come indicatori si disturbi mentali.

Riepilogo

Pensiamo sia utile evidenziare il percorso concettuale che ha articolato la stesura di questa parte testo in cinque punti fondamentali e avvicinarsi in questo modo a riflessioni conclusive. La dipendenza rappresenta un insieme di condizioni naturali che, fin dall’origine, stanno alla base della vita di ogni individuo e si rendono necessarie per correlarsi con la realtà, creare legami con gli altri e promuovere lo sviluppo armonico del corpo e della mente. La capacità di vivere sane dipendenze è una risorsa che può subire distorsioni e diventare fonte di sofferenza. Per questo motivo esistono dipendenze patologiche fondate sulla compulsività dei comportamenti e la pervasività dei pensieri. La psicopatologia attuale ha definito questo fenomeno craving descrivendolo come un’inarrestabile e improcrastinabile spinta a compiere un’azione o ad assumere un atteggiamento, che spesso travalica la forza di volontà. Questo desiderio ingestibile e si configura come alternativa disfunzionale alla capacità di desiderare, rimanendo ancorato alla necessità di soddisfare un bisogno, vissuto come vuoto da colmare. La dipendenza patologica diventa così un’alternativa al dolore intollerabile e non esprime la volontà di soffrire per forza, ma il bisogno di patire di meno. La biologia sottolinea il ruolo fondamentale della dopamina nel mantenimento e nel rinforzo delle condotte compulsive, evidenziando come mente e cervello siano parti dello stesso insieme, integrate entrambe nella funzione di apprendere dalla realtà e dall’esperienza. La genesi delle malattie legate alla dipendenza è multifattoriale e si correla a un modello biopsicosociale, che costituisce la base della maggior parte delle risposte terapeutiche. L’introduzione del concetto di dipendenza comportamentale è avvenuta progressivamente e pone la perdita di controllo come elemento cardine caratteristico di tutte le dipendenze patologiche, al di là del ruolo importante, ma variabile, che i sintomi astinenziali hanno nel favorire le ricadute. La dipendenza online fu concepita in riferimento a internet come strumento concreto, piuttosto che a internet come funzione mentale. Per questo è stata divisa in base ai contenuti di fruizione in dipendenza da giochi di ruolo online, dipendenza da gioco d’azzardo online, dipendenza da social network, dipendenza da sesso online e dipendenza da ricerca continua di informazioni. Sono stati presi in considerazione criteri diagnostici comuni ad altre forme di dipendenza, ma un numero elevato di ore trascorse in rete, insieme con la tendenza manifesta al ritiro sociale, ne evidenziano la comparsa e ne definiscono il decorso.

Ritengo, dopo una significativa esperienza sul campo, di dover pensare la dipendenza da internet in base alla funzione mentale che svolge e, quindi, di separare le manifestazioni cliniche, riscontrate nei pazienti adulti, da quelle, strutturalmente diverse, riscontrate negli adolescenti. Nei primi sono più evidenti i caratteri di dipendenza patologica fondati sull’assenza di investimento nella relazione con l’altro; nei secondi, al contrario, la relazione con l’altro sembra essere il vero scopo di tante ore passate online. In questo senso il gioco online è stato inteso come classica forma di assuefazione, che trova nella dimensione di collegamento virtuale un’esacerbazione degli aspetti clinici, dovuta al maggiore potenziale dissociativo che internet, come generatore di relazioni virtuali, comporta.

Al contrario, l’uso più interattivo che i giovani, nativi digitali, fanno del web interviene nella formazione di identità e personalità, alternando processi di acquisizione, tipici delle fasi di crescita, a nuovi fenomeni dissociativi.

L’era digitale rappresenta un’evoluzione del modo di pensare, prima ancora di essere una rivoluzione nel modo di comunicare. La portabilità della comunicazione e il forte incremento dell’interattività nel nostro vivere quotidiano hanno rapidamente trasformato il modo di essere in relazione con la realtà e di stare con gli altri. Il tempo è vissuto con più intensità e gli eventi sembrano sovrapporsi relativamente alla possibilità di essere contemporaneamente in posti diversi. Questo rende la navigazione un luogo senza luogo e un tempo senza tempo.

Il gap generazionale tra i giovani immigrati digitali e gli adolescenti nativi digitali non è un concetto ma un dato concreto, che possiede risvolti patologici, correlati a un impedimento nella comunicazione emotiva. Le interrelazioni web-mediate presentano aspetti peculiari che le rendono relazioni emotivamente protette. L’assenza del corpo concreto sembra consentire un controllo sulla manifestazione delle emozioni che può diventare, in casi estremi, incapacità a riconoscerle. Gli adolescenti ne sono maggiormente coinvolti perché il sentimento gioca un ruolo chiave nei pensieri e nei comportamenti integrati nella formazione dell’identità, all’interno del proprio gruppo di pari. Questa tendenza sembra essere radicata fin dall’infanzia, nel rapporto sempre più stretto che lega i bambini agli screen digitali e che interviene nei naturali processi di rispecchiamento emotivo. La disponibilità alla condivisione delle esperienze sembra essere venuta meno e all’interno delle famiglie le relazioni triangolari si dissolvono di fronte alla possibilità di essere connessi. I giochi di ruolo e i rispettivi mezzi di comunicazione sono i nuovi spazi di aggregazione dove i giovani interagiscono attraverso la presentazione e il confronto di aspetti parziali idealizzati che non li rappresentano interamente. I livelli di interazione sono molteplici, tutti però vissuti a distanza di sicurezza. L’hikikomori rappresenta la massima espressione di difesa, che a volte si configura come unico livello di relazione possibile.

Il concetto di dissociazione nasce nell’ambito della psicopatologia francese all’inizio del Novecento grazie a S. Freud (1893) che ne descrive una forma sovrapponibile alla rimozione, piccola isteria, e un’altra, grande isteria, tendente a forme di disgregazione più profonde, che in seguito furono incluse da Bleuler nel Gruppo delle Schizofrenie. La dissociazione rimane un fenomeno complesso che interviene in modo multiforme su strutture mentali diverse. I comportamenti compulsivi e i pensieri annessi correlati alle dipendenze patologiche possono pervadere lo spazio mentale di un individuo dissociando ciò che il pensiero sente come intollerabile, configurandosi come stato di follia transitoria. In questo senso la dissociazione, usata come difesa, è sostenuta dalla tendenza alla ripetizione scandita dalle ricadute, che mantengono serrato il ruolo della sua funzione. In adolescenza fasi di abuso comportamentale o tossicomanico rappresentano non solo una sottomissione di dipendenza patologica, ma anche un tentativo disfunzionale di crescere, mantenendo in questo modo l’unico livello di coesione possibile. La dissociazione in questo caso sembra funzionare come dispositivo organizzatore dell’esperienza, separando aspetti della personalità e parti della mente che ancora non possono essere integrati. Questo accade nei contesti più interattivi della rete, come chat, social network e forum, dove si possono moltiplicare le relazioni nel proprio gruppo di pari. Al contrario, la connessione compulsiva fa riferimento alla dipendenza di contesti dove la relazione con l’altro non è investita di significato.

La costituzione di un nuovo profilo cognitivo rappresenta l’esito evidente della progressiva interazione tra mente, cervello e tecnologia digitale. Le operazioni dissociative che caratterizzano tali relazioni mediate intervengono a livello fisiologico, grazie alla funzione della neuro-plasticità. Un incremento della coordinazione delle capacità visuomotorie, strutturata con l’utilizzo costante dei videogame, è un dato incontrovertibile che si integra con una maggiore rapidità nel valutare in modo automatico un ambiente sensoriale. A questo non segue mai una migliore capacità di comprensione e apprendimento, perché navigando la distraibilità aumenta a scapito del mantenimento della concentrazione. L’attenzione è frammentata dalle modalità di comunicazione multitasking e il pensiero è più agito e meno riflesso. La tendenza è quella verso un modo automatico di pensare strutturato sull’incremento dell’intensità del tempo e sulla sovrapposizione degli spazi, che stravolgono, fino a rielaborarne il significato, le esperienze di distanza e vicinanza, cruciali per una crescita armonica. Da qui la pervasione dei comportamenti compulsivi e dei relativi automatismi mentali, nella psicopatologia e nella clinica attuali, sostenuta dalla riduzione della capacità di attesa. Manca il tempo per ricordare e si inverte il rapporto tra memoria biologica e memoria di lavoro, necessariamente complementari. L’immaginazione lascia il posto alla paranoia e l’istintualità, vissuta a distanza di sicurezza, non diventa esperienza. In modo particolare l’espressione dell’aggressività sembra soggetta, online, a manifestarsi in modo eclatante, pur essendo lontana dall’essere usata costruttivamente nella vita reale. Al contrario, la rete incrementa la tendenza alla prosocialità e le correlazioni tra esseri umani, che dovrebbero in futuro orientare l’interesse della ricerca verso la valutazione di un conseguente nuovo profilo affettivo.